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Venerdì santo, 10 aprile 2020

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gesu crocifisso mattia preti.jpg (Consiglio di leggere ascoltando il brano musicale il cui link trovate in coda all'articolo)

Parola della croce, parole dalla croce

Se è vero che, come dice Paolo, tutto il vangelo è l’annuncio della “parola della croce” (1Cor 1,18) che è Gesù Cristo, e dunque per comprenderne la profondità è necessario abbracciare, meditare e vivere tutto il vangelo cioè tutta la vita di Gesù, la fede cristiana ha riconosciuto in alcune parole di Gesù la porta di accesso privilegiata per accedere a quel mysterium crucis: queste sono le cosiddette “sette ultime parole di Gesù dalla croce”, le parole pronunciate da Gesù prima di morire sulla croce. Parola della croce, parole dalla croce: le parole pronunciate dalla Parola, dal Verbo appeso al legno della croce sono l’eloquenza massima del pensiero, della logica paradossale di Dio simbolizzata dalla croce. Le parole dalla croce, cioè le parole di Gesù, il Crocifisso, fanno l’esegesi, in un certo senso, spiegano il significato e la ragione profonda della croce. Non a caso le ultime “parole” di Gesù sulla croce sono sette: il numero sette nella Bibbia è la cifra della pienezza e della totalità.

Leggiamo e meditiamo tre delle ultime parole di Gesù pronunciate in quello spazio elevato tra la terra e il cielo che è la croce, quelle trasmesse dall’evangelista Giovanni nel suo racconto della passione e morte di Gesù che la liturgia del venerdì santo ci propone. Le accogliamo come le parole-testamento del Signore. Poche parole, tanto più dense perché si stagliano su un orizzonte di grande silenzio: il silenzio di Gesù nelle sue ultime ore di vita. 

“Donna, ecco tuo figlio! … Ecco tua madre!” (Gv 19,26-27)

Le parole di Gesù alla madre e al discepolo amato sono state interpretate nella storia della chiesa in due direzioni principali, che non si escludono a vicenda, anzi si integrano.

Esegeti illustri, e tra essi innanzitutto numerosi padri della chiesa, hanno privilegiato una lettura umana: Gesù, sul punto di lasciare i suoi, mosso da un sentimento di pietà verso la madre che dovrà restare sola, si preoccupa di affidarla alla cura dei discepoli, qui rappresentati da Giovanni, il discepolo amato, che è investito di tale cura dalle parole di Gesù. Già su questo piano umano, però, c’è di più. Qui Gesù fa qualcosa di essenziale alla vigilia della sua morte. Dopo essersi spogliato di tutte le sue qualità divine facendosi uomo, come se le avesse messe tra parentesi, ora Gesù si spoglia anche dei suoi legami terreni. Gesù si spoglia da ultimo anche del legame con sua madre, Maria, e del legame di amicizia con il discepolo che egli amava. Gesù fa ciò che ciascuno dovrebbe saper fare vivendo nella maturità i suoi legami di affetto e di amore: liberare chi ama, già qui in vita, prima che la morte strappi brutalmente, recida quel legame.

Nelle parole di Gesù si intravede presentata anche la maternità spirituale di Maria, divenuta da questo momento “madre dei credenti”. In questa seconda lettura, molto importante è quel verbo “vedendo”: “Gesù allora, vedendo la madre e … il discepolo che egli amava, disse…”. Come altrove nel Vangelo di Giovanni, il vedere di Gesù è uno sguardo teologico, uno sguardo che rivela il posto, il ruolo di queste due figure nel piano della salvezza. Ai piedi della croce, nella visione giovannea, sta già il nuovo popolo di Dio inaugurato dall’evento pasquale. Madre di questo popolo è dunque Maria che, in quanto madre del Messia, impersona quella figlia di Sion di cui parla il profeta Isaia (cf. Is 27 e 66) in termini di genitrice di un nuovo popolo: e questo nuovo popolo, la nuova comunità messianica, è la chiesa. In questa visione il discepolo amato diviene il rappresentante e il simbolo di tutti i futuri credenti amati dal Padre e dal Figlio, membri della comunità ecclesiale. La chiesa, dunque, nasce sotto la croce. Segno che ogni comunità, per nascere e crescere dovrà vivere sempre nella logica della croce.

“Ho sete” (Gv 19,28)

Nel quarto vangelo alla scena della madre di Gesù e del discepolo amato ai piedi della croce segue immediatamente la pericope della morte di Gesù, nella quale vengono riferite due parole: “Ho sete” e “È compiuto”. Con la proclamazione della reciproca consegna della madre al discepolo amato e del discepolo amato alla madre, Gesù sa che ormai tutto è compiuto: la sua opera di Figlio dell’uomo e Messia conforme al disegno del Padre è completata, così come preannunciato dalle Scritture.

“Ho sete” (sitio). Sulla croce Gesù, la Sorgente (cf. Gv 7,37) ha sete. Quale sete? Giovanni registra una sete che è innanzitutto una sete fisica, la sete di uomo condotto al patibolo ed esposto agli oltraggi e alla sofferenza, fino allo sfinimento. Sete realissima, non finzione, quella dell’uomo Gesù. Sappiamo che Giovanni è attento a mostrare puntualmente e a più riprese l’umanità di Gesù: non a caso è l’evangelista che apre il suo vangelo con un inno all’incarnazione di Gesù, al “Verbo che si fece carne” (Gv 1,14). 

Ma Giovanni è soprattutto l’evangelista che in quella carne di Gesù contempla la gloria di Dio (cf. Gv 1,14). In questa prospettiva, non stupisce allora che l’affermazione di Gesù “Ho sete” venga considerata da Giovanni primariamente come un adempimento della Scrittura. Nonostante l’evangelista non citi alcun passo particolare, possiamo facilmente ritrovarne i riferimenti impliciti. Il riferimento più immediato è senza dubbio al salmo 69, che al v. 22 recita: “Nella mia sete mi fanno bere l’aceto”. Anche il salmo 69, come il salmo 22, è la preghiera di un malato, osteggiato dai nemici, in cui si alternano invocazioni, lamenti e suppliche. Ma dietro alle parole di Gesù “Ho sete” si può scorgere anche un’allusione al salmo 22, che al v. 16 riporta la confessione del morente che dice: “La mia gola inaridisce come un coccio, la mia lingua si attacca al palato”, espressioni, queste, che illustrano con immagini fisiche una sete ardente.

Ma la sete di Gesù non era semplicemente una sete fisica: era il desiderio, forse addirittura il bisogno di suscitare un’altra sete. La tradizione esegetica non ha esitato a vedere, dietro alla parola di Gesù “Ho sete”, la sete espressa da un altro salmo, il salmo 42, che al v. 3 confessa: “L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente”. Gesù al momento della morte è abitato da una sete di vita, da un desiderio di vita, e sa che solo il Dio vivente può donargliela. Guardando a Gesù anche noi impariamo ad aver sete del Dio vivente fino all’ultimo respiro, a desiderare l’acqua viva che solo Dio può darci, a desiderare quel “dono di Dio” (Gv 4,10) che, accolto, ci fa entrare nella “vita eterna” (Gv 4,14).

“È compiuto” (Gv 19,30)

Eccoci giunti in fondo, al fondo del dono di sé, alla compiutezza del dono: “È compiuto” (tetélestai; consummatum est). Gesù può giungere fin qui soltanto per amore, principio e fine del dono. Se la sua morte ha un senso lo ha solo in quanto espressione somma, vertice del suo amore. Per questo, nella prospettiva teologica di Giovanni, la morte è rivelatrice dell’amore di Gesù, e dunque Gesù va alla morte come un trionfatore: il trionfo della vita donata fino alla fine, fino all’estremo. “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1). Nella prospettiva di Giovanni il trionfo della vita appare già sulla croce, prima del mattino di Pasqua. In sintesi, possiamo dire che il senso profondo di quel “È compiuto” è che la vita di Gesù è stata una vita riuscita: questo, però, lo si può comprendere soltanto nella fede…

Se la storia della salvezza aveva un disegno, iniziato con la creazione e passato attraverso le profezie e le manifestazione di Dio nella storia di Israele, questa storia ha avuto fin dall’origine un un fine, e questo è Cristo – ci dice Giovanni – il quale porta a compimento quella storia. In Cristo la storia è andata a buon fine! 

Compimento delle Scritture, compimento dell’opera salvifica affidata dal Padre, compimento dell’obbedienza e compimento della libertà si aggiungono al compimento del desiderio di Gesù che la parola precedente – “Ho sete” – aveva esplicitato: questi “compimenti” si intrecciano nelle ultime parole di Gesù sulla croce per comporsi in un arazzo dominato dal segno grande dell’amore.

Le tre ultime parole di Gesù sulla croce riportate da Giovanni sono dunque un testamento d’amore che ci lascia in eredità il compito dell’amore

Fratel Matteo (Monastero di Bose)

(Il dipinto nella foto che rappresenta la Crocifissione è del pittore calabrese Mattia Preti e si trova nella chiesa di San Domenico a Taverna, CZ)

(Cliccare quì per ascoltare la Corale Fenice EnsembleCliccare quì per ascoltare la Corale Fenice Ensemble di Cassano Ionio nell'esecuzione di un brano di Ennio Morricone composto per la colonna sonora del film "Mission". Dirige il M° Mauro Aluigi)