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E se Dio parlasse nel silenzio?

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alba.jpgNel suo “Diario dell’anno della peste” (1722) lo scrittore inglese Daniel Defoe scriveva: «Qui mi permetto di osservare, e spero che non si vorrà farmene una colpa, come l’incombenza della morte riconcilii in breve gli uomini di buoni principi tra loro, mentre la tranquillità di una vita senza pericoli fomenti ogni sorta di discordie, rivalità, divisioni, pregiudizi. Un altro anno di peste, io credo, avrebbe appianato tutte le differenze sociali e religiose tra noi; sarebbe stato un altro anno di serrati rapporti con la morte e avrebbe tolto via tutto il fiele, tutta l’animosità delle nostre competizioni, ci avrebbe ridotto a veder le cose in modo diverso da quello, in cui purtroppo, le vediamo ancora oggi»(Edizione Milano 1973, p. 119).Certo, noi non ci auguriamo neppure un giorno di questa terribile peste pandemica, per verificare la capacità ultima che avrebbero i cataclismi di aprire il varco a una prospettiva escatologica, tipica delle fedi, che guardano anche ai mali più tremendi come a delle realtà sempre penultime, in attesa dei tempi nuovi e buoni che verranno. Da qui nascono diverse posizioni: c’è chi propone di affossare l’ottimismo eliminando perfino la speranza in un altro mondo; c’è chi, figlio di una concezione evolutiva, conta di dare sicurezza alla propria esistenza con il progresso, augurandosi che prima o poi le tecnologie offrano soluzioni alternative. A ben vedere, anche se la pandemia mette in luce i limiti della scienza e della tecnica, quella del progresso, dopo il crollo delle utopie politiche, è l’unica utopia che resiste.

Tuttavia, neppure il già terribile quasi primo anno di Covid-19, oltre che togliere consistenze alle utopie,è riuscito a mandar via il fiele della competizione tra generazioni: i soggetti più a rischio, si è detto, appartengono anche all’età non produttiva! Anzi, non ha neppure appianato le differenze religiose, stante il fatto che, in nome di un Dio monoteista (ma la violenza ed il terrorismo non sono mai religiosi) si compiono efferati assassinii in una chiesa cattolica (a Nizza) e nei pressi di una sinagoga (a Vienna). Oltre a ciò, anche se fanno più notizia le cifre terrificanti dei morti di pandemia, suonano altrettanto tetre le cifre di chi muore in mare tentando di approdare alle rotte dei Paesi europei mediterranei (soprattutto da noi) ed anche le cifre, parimenti alte nei paesi sottosviluppati, di chi muore per malattie già note e“consolidate”, sottovalutate rispetto all’emergenza pandemica oppure senza possibilità di accesso in strutture sanitarie ormai dedicate alla patologia “che conta”. E mentre l’Occidente, a fronte di un’inevitabile carenza dei posti letto in rianimazione, è costretto a interrogarsi su chi “preferire” per l’accesso, a parità di tempi di arrivo in pronto soccorso, ma senza capienza.

Il mondo cristiano non può che rileggere seriamente alcuni terribili episodi evangelici senza apparente spiegazione. Per esempio, quelli che minacciano sangue e morti, quasi senza misericordia, come nel Vangelo di Luca (13,1-9) dove Gesù è portato a conoscenza di due eventi sconvolgenti: il massacro operato da Pilato nel tempio (il sangue di alcuni giudei viene a essere mescolato agli agnelli sacrificati) e i ben diciotto morti schiacciati sotto la torre di Siloe, che si abbatte nella piscina. Evento sacrilego il primo, morti senza senso nel secondo, che il popolo interpreta come una punizione di Dio verso i peccatori: le vittime ci sono state in conseguenza dei peccati. Gesù non accetta il paradigma esplicativo di tali sventure: quelle morti, egli afferma, non sono da addebitarsi a colpe personali, ma sono un monito per la conversione e il giudizio di Dio su tutti. Gesù invita a leggere quei fatti come segni, come eventi, come lezioni della storia per combattere il male ed a convertirsi per far crescere il suo regno nei cuori degli uomini

Appunto: e se, attraverso i numeri tragici della pandemia, ci stesse arrivando da Dio un monito? Di fronte a tante terribili situazioni di morte e di malattia, sia fisica che psicologica e sociale, anche noi preti coinvolgiamo Dio, magari domandandoci come ricominciare da capo, con nuovi parametri, la nostra azione di annuncio nei difficili tempi presenti. E tuttavia, se non possiamo metterci in contrapposizione con Dio, allontanandoci da lui quando un familiare, un anziano, un bambino muore o si ammala gravemente, neppure ci accontentiamo ricordando che l’essere umano è fragile e ontologicamente limitato, per cui il suo essere nella carne è sempre foriero di malattia e di morte. Non basta dirci, come pure si fa all’inizio della quaresima: “Memento: pulvis es…Ricordati che sei polvere”. E se l’uomo è come l’erba, come il fiore del campo, e se gli stessi peccati (e tanti sono quelli che si comportano come concause della situazione attuale) sono espressione della fragilità della condizione umana, perché non leggere il mancato intervento riparatore di un Dio, pur tanto implorato e invocato, come un suo discorso, “strano”, anzi stranissimo? Chissà che il padrone del fico sterile non stia attendendo i buoni frutti con pazienza e misericordia. Ma l’essere umano non sa più ascoltare questo discorso di attesa paziente, anzi è restio a lasciarsi convincere da un’azione salvifica che starebbe avvenendo e quasi parlando per contrariam speciem.

Insomma, una parola nel silenzio triste e freddo della stagione dei morti?

Nella sensibilità ebraica, l’orecchio è il mezzo attraverso cui l’anima, intesa come vita, recepisce il messaggio divino e lo vive. Nella prospettiva cabalistica, poi, la stessa creazione, piuttosto che essere l’esistenza di qualcosa dal nulla viene presentata come lo “Tsim-Tsum” di Dio: la creazione, cioè, perviene all’esistenza e si dà a vedere nella sua cosmicità, proprio perché Dio fa uno tsim tsum, cioè si ritira, si rimpicciolisce, si fa povero, si eclissa, scompare dalla vista e non placa i venti che si abbattono contro la barca umana. Anche se chiamato e invocato, cioè, sembra che non voglia darsi a vedere, in linea con il primo atto creativo, che sarebbe stato un esilio divino piuttosto che un suo dispiegarsi o rivelarsi. Prima della creazione, c'era solo l'infinito vuoto a riempire tutto quanto. Quando sorse nella sua volontà l’idea di creare mondi, avrebbe contratto se stesso nel punto al centro, nel cuore della sua luce, in modo che rimanesse uno spazio vuoto, lontano dal punto centrale.

La troppo lunga e insopportabile durata di questa notte della pandemia va forse assimilata al lungo silenzio del sabato santo, che dura tante ore quanto il venerdì santo e la domenica di Pasqua? Ventiquattro ore di silenzio, senza neppure la celebrazione della Santa Messa. Il dato storico dei Vangeli testimonia la sepoltura di Gesù, che non solo ne prova la morte, ma anche lo stato di allontanamento di Dio nei tre giorni prima della risurrezione. Infatti, “come Giona rimase nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti, così il Figlio dell’Uomo rimarrà per tre giorni e tre notti nel cuore della terra” (Mt 12,39-40). Gesù ha condiviso il nostro stesso destino di morte e di abbandono, senza averne alcun vantaggio dalla sua figliolanza divina. Un inno della Chiesa ortodossa recita: “Nella tomba con la carne, / nell’Ade con l’anima, / come Dio, in Paradiso con il ladrone, / e sul trono Tu sei, o Cristo / con il Padre e lo Spirito Santo”. La discesa agli inferi del morto Gesù rappresenta l’abbandono di Dio, l’assenza di Dio forse in modo assai più pregnante del momento in croce, in cui Gesù ha gridato: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” (Mc 15, 34). Ecco l’esperienza del libero, rischioso abbandono a Dio, che è silenzio, non si mostra, non offre garanzie, non rassicura, anzi si ritrae, come in un momento di vuoto, di svuotamento, d’impossibilità di anticipare un qualsiasi esito nell’ordine delle sole possibilità umane. Salto nel buio, rischio senza rete, sostenuto solo dalla memoria di un Dio incontrato e amato come Padre.

Ci farà bene fare un po' di silenzio, per sentire il silenzio di Dio. Dinanzi a tanti limiti, è così irrazionale pensare al Dio di Gesù Cristo, eliminando gli “ assoluti terreni” e rivolgendosi a Dio liberamente? Manzoni nei Promessi sposi attribuisce un valore pedagogico alla peste; non potremmo fare lo stesso anche noi, leggendo la pandemia non solo per l’impatto che ha sulla salute pubblica, sul Pil delle nazioni, o sulle trasformazioni economiche, sociali e politiche (tutte letture penultime), ma potrebbe anche esibire come un valore pedagogico. Ma perché Dio farebbe questo? Perché Dio tace? Ecco la straordinaria risposta di André Neher, che è la risposta della tradizione ebraica: «Perché se Dio fosse solo il Dio della Parola ci accecherebbe con la sua luce. Dio è il Dio del silenzio, perché solo il silenzio di Dio è la condizione del rischio e della libertà».La nostra epoca rischia di essere soffocata dalle parole, da dibattiti insensati e inconcludenti in cui, in ultima analisi, nessuno ascolta nulla se non quello che si accorda con i propri pregiudizi.

Sì, forse Dio ci sta parlando proprio perché rimane Dio nella sua alterità e sporgenza, e l’uomo può porre l’unico atto di libertà assoluto della sua vita perché non è indotto a fidarsi da nessun bisogno religioso funzionale, da nessuna teologia controllabile. È l’atto di fede di chi, leggendo le parole del silenzio, sa solo abbandonarsi e dire: “Padre, nelle tue mani, consegno il mio spirito” (Lc 23, 46); di chi nella notte del mondo si piega di fronte al dolore, ma non si spezza, fermandosi ad ascoltare la voce del silenzio: «è la notte per svelare/ ogni stella del cielo,/ per fermarsi ad ascoltare/ quella voce dentro di te: la voce del silenzio.// Se questo tuo cuore vibra/ ad ogni nuova emozione,/ se questo tuo cuore si perde/ nella sua Ingenuità,/ se questo tuo cuore si accende/ ad ogni sospiro di vento,/ se questo tuo cuore si piega/ senza spezzarsi mai»(Le orme, 2004).La presenza di Dio è il puro silenzio. Tu non puoi costringere Dio, ma se fai posto al silenzio, allora il silenzio diviene la Sua Parola: Egli ti parla. Ha parlato anche a noi.

+ P. Vincenzo Bertolone S.d.P.

                                                                     Arcivescovo di Catanzaro Squillace  

(foto di Giuseppe Costantino)