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Donne, care sorelle

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 jacopa-settesoli.jpg«L’organizzazione delle società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare con chiarezza che le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici diritti degli uomini. A parole si affermano certe cose, ma le decisioni e la realtà gridano un altro messaggio. È un fatto che “doppiamente povere sono le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti”» Parole di papa Francesco, che nella Fratelli tutti assimila la condizione attuale della donna nel mondo, e nella stessa Chiesa, a quella dei “poveri”, anzi ai doppiamente poveri, cioè a coloro che perdono sempre, ritenuti pericolosi o inutili per il consesso sociale, mentre i potenti sarebbero generosi benefattori. Quando verrà il tempo in cui i poveri, anche le povere donne, sulla scia del Poverello di Assisi – a cui l’enciclica bergogliana esplicitamente s’ispira –saranno riconosciuti e apprezzati nella loro immensa dignità, rispettati nel loro stile proprio e nella loro cultura, e pertanto veramente integrati nella società e nella Chiesa? Il ruolo e la funzione di Maria Immacolata (donna, madre e fedele discepola di Gesù di cui martedì ne celebriamo la festa) che ha avuto nella storia della salvezza e della chiesa non avrà molto da dire per questo processo di legittima restituzione della centralità al genio femminile?

Mosso da questa e simili domande, un amico prete, molto colto, mi ha recentemente scritto: “Ho sempre ascoltato gli elogi su Santa Chiara, fuggita da casa perché affascinata misticamente da San Francesco, ma non ho mai sentito parlare della ricca vedova nobildonna romana con figli, che San Francesco chiamava amabilmente ‘Sette soli’, riferendosi alla sua bellezza fisica e spirituale, che per tutta la vita ha aiutato economicamente il ‘Poverello’ e i suoi seguaci, l'ha ospitato nella sua casa, l'ha curato durante le malattie”. Francesco d’Assisi la chiamava affettuosamente “Frate Jacopa” (ecco perché anche Fratelli tutti non riguarda soltanto i maschi, ma anche le donne!) ed era a lei legato come un figlio alla propria madre. Si trattava di Giacoma Frangipane de' Settesoli, conosciuta come Jacopa de' Settesoli, data in moglie giovanissima a Graziano Frangipane de' Settesoli, esponente della nobile casata romana dei Frangipane. Rimasta vedova nel 1217, quindi signora dei tanti castelli e terre del Lazio dei Frangipane, dopo Santa Chiara è la più vicina a Francesco, per devozione e manifestazioni d’affetto, al punto che, come scrive Tommaso da Celano dice che Francesco nutriva per questa signora un affetto così «particolare» al punto che, sentendosi prossimo a morire, Francesco chiese di farla accorrere al suo capezzale: «Pochi giorni prima di morire, chiese che fosse avvertita a Roma donna Jacopa, perché se voleva vedere colui che già aveva tanto amato come esule in terra e che ora era prossimo al ritorno verso la patria, si affrettasse a venire» (Celano, n. 860). Quasi in sintonia di spirito, la nobildonna si affrettò ad arrivare. Venne ammessa davanti al santo, nonostante i divieti esistenti per le donne. È lo stesso Poverello di Assisi a elevare un inno di lode per la presenza di quella casta vedova: ««Benedetto Dio, che ha condotto a noi donna Jacopa, fratello nostro! Aprite le porte – esclama – e fatela entrare, perché per fratello Giacoma non c’è da osservare il decreto relativo alle donne!». Come già quella donna evangelica per il corpo di Cristo, inondato di profumi e unguenti, anche il corpo di Francesco sarebbe stato preparato alla morte proprio da donna Jacopa, che aveva portato con sé perfino il piatto preferito dal Santo: «un panno di colore cenerino, con cui coprire il corpicciolo del morente, parecchi ceri, una sindone per il volto, un cuscino per il capo e un certo piatto che il santo aveva desiderato; insomma tutto ciò che l’anima di questo uomo aveva richiesto, Dio l’aveva suggerito a lei».

Quant’è bella questa “fotografia” della nobile donna che accudisce il Santo morente. Il cristianesimo è bello perché attrae, anche mediante la diade femminile e maschile. Un cristianesimo così non ha bisogno di pubblicità: si reclamizza da sé trasmettendo la pari dignità dell’uomo e della donna e facendo volentieri spazio a quante sono ancora emarginate o relegate a meri ruoli di accudimento, come se fossero destinate alla sola salus corporum e non anche alla salus animarum. Quasi facendo eco alla sua terza enciclica, papa Francesco, che dal Poverello ha preso anche il nome e l’ispirazione per scrivere Fratelli tutti, l’ha ripetuto icasticamente all’Angelus di domenica 11 Ottobre di quest’anno, riflettendo sulla condizione dei laici nella Chiesa: «Nessuno di noi è stato battezzato prete né vescovo: siamo stati tutti battezzati come laici e laiche. I laici sono protagonisti della Chiesa. Oggi c’è bisogno di allargare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa, e di una presenza laica, si intende, ma sottolineando l’aspetto femminile, perché in genere le donne vengono messe da parte. Dobbiamo promuovere l’integrazione delle donne nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti. Preghiamo affinché, in virtù del battesimo, i fedeli laici, specialmente le donne, partecipino maggiormente nelle istituzioni di responsabilità nella Chiesa, senza cadere nei clericalismi che annullano il carisma laicale e rovinano anche il volto della Santa Madre Chiesa».

Esiste una legittima lettura femminile delle fonti francescane ed anche dei sacri testi, evitando posizioni aspre o faziose, cioè un’irragionevole ostilità all’uomo in nome della valorizzazione del femminile, o anche una pregiudiziale tendenziosità partigiana, una prospettiva separatista ad oltranza. Dobbiamo riconoscerlo: il percorso non si è ancora concluso, neppure dopo l’arrivo di una vice-Presidente donna alla Casa Bianca. Le sfide odierne sono forse ancor più impegnative di quelle di ieri, perché travalicano il piano strettamente giuridico e investono la cultura e la mentalità, anche religiosa. Di qui l’importanza d’una rivoluzione etico-antropologica che veda al centro l’interpretazione simbolica della femminilità. Per esempio, l’esplorazione daccapo dei racconti biblici e della tradizione storica della Chiesa potrebbe convincerci paradossalmente che proprio il simbolo femminile di Eva, presentato dalla Genesi, è lì a contestare la ricorrente tesi dell’intrinseca irrecuperabilità della Bibbia a un discorso de dignitate mulieris. D’altra parte, il significato dei testi profetici, che vanno scrutati a motivo del linguaggio dell’eros e del femminile, viene utilizzato a piene mani per descrivere gli stessi rapporti tra l’Assoluto e l’umanità. Il Cantico dei cantici com’è stato scritto dal teologo Andrea Milano,può essere considerato un «piccolo, ma stupefacente canto di esaltazione dell’eros allo stato puro», che consente di ritrovare, in questa sorta di “incunabolo teologico” – e questo è un unicum nella storia della teologia cristiana –il personalismo, in particolare quello al femminile. Davvero «si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune» (Fratelli tutti, n. 67).

Si affermano oggi sempre nuovi diritti delle donne, calibrati tuttavia soltanto su nuovi desideri: il diritto al figlio, il diritto al figlio sano, costruito a tavolino genetico secondo i propri gusti ed evitando malattie odiose; il diritto a crescere da sole il proprio figlio, o con altri soggetti diversi dal padre. Così tutta una tradizione rimasta immutata per millenni in quanto fedele alla natura e alle sue leggi per la prima volta rischia di venir cancellata e calpestata, riscrivendo la mappa dell’universo e delle sue dinamiche. Per esemplificare, la fecondazione eterologa e l’utero in affitto non espropriano la donna della propria fecondità e dell’insostituibile legame con il proprio figlio? Eil figlio a sua volta non rischia di non essere più un dono a cui aprirsi incondizionatamente, ma un desiderio del momento, una chimera di perfezione di cui scegliere tratti fisici, temperamento e intelligenza?Certo, bisognerà lavorare per colmare ritardi, storici e culturali, anche nella comunità ecclesiale. Si è domandato, ad esempio,la teologa Maria Cristina Bartolomei: “Nella Chiesa vi è anche una comunione di genere? E la mia risposta è: “Nella comunione che la Chiesa è, non c’è – ancora – una vera e piena comunione di genere’”. Ecco perché urge una riserva profetica, per allargare gli spazi della presenza femminile nella società e nella chiesa. La nostra è una società che deve recuperare il valore dell’accoglienza: la vita non è bella se ci si chiude nell’individualismo e nella solitudine; se non si mettono in pratica etica, religiosità, corresponsabilità; se non si è accoglienti verso l’altro e il “Totalmente Altro”.

Lasciamoci guidare una volta ancora dal “genio femminile” dalla “benedetta fra tutte le donne”, da Maria. Come lei ogni donna non s’arrende mai: invita sempre alla speranza, anche se le nubi all’orizzonte si fanno nere e il futuro non sembra promettere nulla di buono. Così è stato ed è, ad esempio, anche in questo tempo di pandemia, in cui la forza delle donne ha sostenuto le famiglie e la società. È necessario tutelare questo patrimonio, poiché necessarie sono le donne se si vuol avere futuro: come scriveva Immanuel Kant, di una donna c’è sempre bisogno, perché è lei a piantare e nutrire i primi semi del bene ed a fare del figlio l’uomo (o la donna) che sarà.

P. Vincenzo Bertolone S.d.P.

                                             Arcivescovo di Catanzaro - Squillace

foto: dal web - Jacopa  Settesoli