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Dante Alighieri e la Calabria per lo storico Franco Liguori

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LA PRESENZA DELLA CALABRIA NELLA DIVINA COMMEDIA E L’APPORTO CULTURALE DEI CALABRESI ALLO STUDIO DI DANTE ALIGHIERI

Contributo al “Dantedì” , istituito per celebrare il 700° anniversario della morte del sommo poeta fiorentino (1321-2021)

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Ieri, 25 marzo 2021, si è celebrata la Giornata Nazionale dedicata al nostro massimo poeta, Dante Alighieri, istituita nel 2020 dal Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro della Cultura Dario Franceschini. Gli studiosi hanno scelto il 25 marzo per la celebrazione di questa Giornata, perché in quel giorno inizia il viaggio di Dante nell’aldilà della Divina Commedia (25 marzo del 1300). Questo importantissimo evento culturale sarà segnato dall’attivazione di tante iniziative in Italia e nel mondo, mirate a celebrare il genio del sommo poeta fiorentino. A noi piace celebrarlo da un punto di vista tutto “calabrese”, evidenziando quanto della storia, della lingua, del pensiero della Calabria è presente nella sua opera maggiore,la Divina Commedia, e facendo conoscere i tanti studiosi e letterati calabresi che hanno dedicato, nel tempo, studi e commenti all’opera letteraria e poetica di Dante. La Calabria e i Calabresi, a nostro avviso, hanno pieno titolo e tanti spunti culturali per inserirsi degnamente in queste celebrazioni dantesche del 2021. Ci auguriamo che la scuola, in primis, ma anche le istituzioni e le associazioni culturali calabresi, si attivino ad organizzare incontri di studio e momenti di riflessione critica sul maggiore poeta della nostra letteratura, “artefice” della lingua italiana, un vero genio universale, la cui opera poetica rimane sempre attuale e di utile lettura in ogni epoca.

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Dante e Gioacchino da Fiore

“….E lucemi da lato il calavrese abate Gioacchino,

di spirito profetico dotato….”. (Paradiso, XII,139-141).

Con queste parole messe in bocca a San Bonaventura, Dante presenta, nel XII canto del Paradiso , la figura di Gioacchino da Fiore, grande filosofo, esegeta e fondatore dell’Ordine monastico florense, il cui pensiero rappresenta una componente importante della formazione giovanile del sommo poeta fiorentino. Dante ebbe modo di conoscere il pensiero gioachimita dagli insegnamenti ricevuti nella scuola di Santa Croce, a Firenze, dove ebbe come suoi maestri grandi teologi come Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale (quest’ultimo ripreso come personaggio nel celebre romanzo di Umberto Eco, “Il nome della rosa”),autorevoli corifei del Gioachimismo in Italia e in Francia. L’influenza dell’abate calabrese, nato a Celico (presso Cosenza) verso il 1130 e morto nel monastero di S.Martino di Canale (Pietrafitta) nel 1202, fu davvero forte e illuminante, tant’è che nella Divina Commedia si riscontrano diverse similitudini con le affascinanti immagini frutto delle intuizioni mistiche di Gioacchino, come la figura della candida rosa dell’Empireo nel XXXI canto del Paradiso ispirata alla tavola XIII del “Libro delle Figure” di Gioacchino; così pure, nel XXII canto del Paradiso , quando contempla la Trinità, nel descriverla (“la Fede vede questi tre giri, di tre colori e d’una contenenza, ma la geometria non potrà vederli mai”) Dante s’ispira ai tre cerchi tricolori disegnati da Gioacchino nell’XI tavola del “Libro delle Figure”.

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Tanti sono stati gli studiosi che, nel corso del secolo scorso, si sono soffermati sul “Gioachimismo dantesco”.Il filosofo tedesco Alois Dempf scrisse nel 1929 che Dante “scrisse la sua Divina Commedia”, un’opera che può essere letta come “un’Apocalisse gioachimita”. Molto interessanti le riflessioni critiche dello studioso calabrese Luigi Costanzo (1886-1958), il quale scrive che il poema dantesco va ripensato in blocco. Esso, prima che scritto, fu maturato nell’anima dolorosa di Dante, come una vasta esperienza religiosa; scriverlo fu, per Dante, un atto di sublime purificazione ascetica. “In questo meraviglioso poema di ascensioni e di armonie cristiane vi sono due poli: si va dal rigore della legge all’intuizione gioiosa del divino. Sono appunto i due poli del pensiero dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore: 1° periodo: il timore della legge che punisce : “in servitute servili”, diceva Gioacchino; 2°periodo: la grazia fiduciosa e aspettante della servitù filiale: “in servitute filiali”, diceva Gioacchino. Nel 3° periodo si va di chiarezza in chiarezza verso la verità (Dio) che realizza la libertà. I tre regni di Dante (Inferno, Purgatorio,Paradiso) sono i tre periodi gioachimiti, le tre necessarie e laboriose tappe di ascensione dello spirito che si rigenera individualmente e socialmente” (Costanzo).Un altro grande studioso di Gioacchino, Ernesto Bonaiuti.(1881-1946) considera tutta la “Commedia” di Dante scritta in chiave gioachimita : “L’atmosfera in cui la sua ispirazione si mantiene è intatta, l’atmosfera respirata da Gioacchino, la tecnica della sua interpretazione della Bibbia e della storia ecclesiastica è tuttora, intatta e precisa, la tecnica del Veggente di Celico”. Lo scrittore Giovanni Papini (1881-1956) afferma che “nell’animo di Dante si affrontano i due fuochi accesi nell’Italia del Sud ad illuminare l’ultima grande stagione del Medievo: S.Tommaso d’Aquino e Gioacchino da Fiore: il costruttore e il sognatore; l’Architetto sapiente e il Profeta ispirato; il Razionalista scrupoloso e l’Utopista ragionante” Riassumendo il pensiero di Papini si potrebbe dire che se la sostanza teologica della Commedia deriva da S.Tommaso, lo spirito che l’informa è tutto di Gioacchino.Lo stesso Papini sostiene che il Veltro , del quale il poeta fiorentino profetizza la venuta nel primo canto dell’Inferno, rappresenta lo Spirito Santo, protagonista della terza età del mondo secondo il messaggio di Gioacchino da Fiore; la profezia del Veltro, in sostanza, si ricollega alla concezione dell’abate silano di rinnovamento della società cristiana. Gioacchino e Dante sono accomunati da un giudizio critico sulla Chiesa del loro tempo, che si era lasciata invischiare da interessi economici e politici fuorvianti.

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Per Gioacchino e Dante la Chiesa deve fondare la Pace sulla Giustizia e la Giustizia sulla Carità. Dell’influenza esercitata da Gioacchino da Fiore su Dante, si è occupato anche il filosofo e teologo cariatese Giovanni Di Napoli (1910-1980), autore di importanti saggi sull’abate calabrese “di spirito profetico dotato”, da lui definito “un riformatore”, come era stato, prima di lui, Cassiodoro, e come a loro modo saranno Francesco di Paola e Tommaso Campanella: tutti della stessa terra e tutti dotati di potente fantasia e di potente volontà. Egli scrive che “Dante era informato sulla persona di Gioacchino” e che tanti sono gli elementi che “mostrano in Dante un conoscitore delle idee e propositi e raffigurazioni simboliche di Gioacchino”; “basterebbe pensare alla struttura del Paradiso, al simbolo trinitario dei tre cerchi iridescenti, al Veltro, ecc..; l’afflato morale dei versi danteschi trova negli scritti una puntuale rispondenza” E si potrebbe continuare a lungo in questa ricerca di riflessi gioachimiti, diretti o indiretti, sparsi un po’ in tutta la Divina Commedia, che ci portano ad affermare che il poema dantesco è senza ombra di dubbio uno dei tesori del patrimonio identitario dell’Italia, al quale la Calabria ha dato, con Gioacchino da Fiore, un grande contributo. E di questo noi calabresi dovremmo andar fieri ed ispirarci agli insegnamenti di questi “grandi figure” del nostro passato ricco di storia e di cultura, come l’abate silano, al quale Dante ha assegnato un posto in Paradiso, il santo di Paola,il filosofo di Stilo, per uscire dalla palude culturale, politica e morale in cui siamo immersi da tempo !

Dantisti e dantofili calabresi

La Calabria ha sempre avuto un culto per Dante. Nella nostra regione, fin dall’800, la “Divina Commedia” è il classico maggiormente tradotto nel nostro dialetto, oltre che il maggiormente studiato e approfondito. Nel 1840 il letterato rivoluzionario Domenico Mauro, di San Demetrio Corone, diede alle stampe un primo volumetto sulle “Allegorie e Bellezze della Divina Commedia”, che ripubblicò in una versione più arricchita nel 1862,col titolo di “Concetto e forma della Divina Commedia”. Per Mauro, patriota risorgimentale, la Divina Commedia è il poema della nazione italiana. Egli aprì a Napoli una scuola privata gratuita, servendosi della “Divina Commedia” come unico ed esclusivo libro di testo, volendo con questo gesto simbolicamente significare la necessità di una letteratura nazionale in rappresentanza dell’unità della nazione stessa. Nel 1845, Pier Vincenzo Gallo, il “chitarraro” di Rogliano, umile figlio di un costruttore di chitarre, pubblicò sulla rivista “Pitagora” di Scigliano (CS), le sue traduzioni dell’Inferno in dialetto cosentino. Ecco un piccolo saggio della sua versione dialettale del canto III dell’Inferno, in cui Dante descrive gli “ignavi” :

“Questi non hanno speranza di morte,/e la lor cieca vita è tanto bassa,/ che invidiosi son d’ogni altra sorte./ Fama di loro il mondo esser non lassa;/ misericordia e giustizia li sdegna: / non ragioniam di lor, ma guarda e passa/ Ed io che riguardai vidi una insegna che girando correva tanto ratta,/ che d’ogni posa mi pareva indegna;/ e dietro le venia sì lunga tratta/ di gente ,ch’io non avrei creduto/ che morte tanta n’avesse disfatta” (Inferno, III, vv.46-57)

Traduzione di V.Gallo in dialetto calabrese:

“Murire un ponnu cchiù, lu cchiù turmientu;

Tantu la sorte loro ch’è meschina

Chi tienu ‘nbidia di lu cchiù scuntientu.

Allu munnu pue chine li ‘nnumina ?

Pietà e Justizia li disprezza; via

Nu nne parramu cchiù, guarda e camina !

Guardavi, e te videtti che currìa,

Girannu a rumpicuollu ‘un se volìa.

Di giente appressu cce vidìe ‘na fera,

Chi mai cridienzia eu ci avissi datu.

Tra Ottocento e Novecento altri calabresi lavorarono sui canti della “Divina Commedia”, primo fra tutti Salvatore Scervini (1847-1925) di Acri (CS), annoverato tra i migliori traduttori calabresi del poema dantesco, autore di una traduzione delle tre cantiche , che lo impegnò dal 1879 al 1893. Ecco la sua traduzione delle prime quattro terzine del canto I dell’Inferno ( I, vv.1-12) note a tutti :

A mmienzu cursu de la vita mia/ mi trovai spersu/ intra na sirvia scura,/ Ca la strata deritta persu avìa/ Iu spaventatu pingu la figura/ De sta sirvia spinusa, cupa e forta,/Chi rinnova allu coru la pagura,/ Chi l’arma scoti vidiennu la morta,/ Ma diri vuogliu llà cchi cci trovai / E qualu Santu mi apirìu la porta./ Cuntari nun sacciu nò cumu c’intrai:/ Nciutatu era dde suonnu a chillu puntu/ Chi la strata chiù certa abbannunai.

Tra i tanti altri calabresi che si sono cimentati nella traduzione in dialetto del poema dantesco, vanno ricordati Vincenzo Zucchi, Agostino Pernice, Francesco Pisani e, nel 2002, Raffaele Zurzolo, di Polistena (RC). Tra gli studiosi di Dante e dei suoi legami culturali con la Calabria, si ricordano, innanzitutto, il cosentino Stanislao De Chiara, autore dell’importante saggio “Dante e la Calabria” (Cosenza,1894) e lo storico castrovillarese P.Francesco Russo, autore del saggio “Dante e Gioacchino da Fiore” (Firenze,1966). Grandi dantisti furono nel primo Novecento, i catanzaresi Siro Chimenz (1897-1962) e Umberto Bosco (1900-1987), entrambi autori di commenti alla “Divina Commedia”, che hanno utilizzato tanti nostri studenti nello studio del poema dantesco.

Vocaboli calabresi nella Divina Commedia

La presenza della Calabria nella “Divina Commedia” è testimoniata anche dalla presenza nel poema dantesco di numerosi vocaboli calabresi. Il letterato toscano Apollo Lumini (1818-1879) ne ha individuato ben 59. I principali sono i seguenti:

accattare (=acquistare); affruntare (=andare incontro); aggiustare (=accomodare); allumare (=illuminare); ammucciare (=nascondere); appriessu (=in seguito, poco dopo); assettare (=sedersi); frate e suoru (fratello e sorella); jumara (=fiumara, fiume); mansu (=mansueto); pisule (=leggero, non pesante); riciettu(=ricetto, ricovero); suppa (=zuppa); vacante (=vuoto).

Luoghi della Calabria citati da Dante

Nella Divina Commedia, Dante ricorda tre luoghi della Calabria: Cosenza, Catona (Reggio C.) e , indirettamente,Scilla. La citazione di Cosenza la troviamo nel III canto del Purgatorio, al verso 124, laddove Dante fa parlare Manfredi, il quale dice: “Se il pastor di Cosenza che alla caccia/ di me fu messo per Clemente allora,/avesse in Dio ben letta questa faccia,/ l’ossa del corpo mio sarìeno ancora / in co’ del ponte presso a Benevento, sotto la guardia della grave mora “ (Purgatorio,III, vv.124-129). Il vescovo di Cosenza cui allude Dante è il cosentino Bartolomeo Pignatelli, il quale, incaricato da papa Clemente IV di perseguitare Manfredi, fece dissotterare il suo corpo di notte e a lume spento e gettarlo fuori dai confini del Regno. La citazione di Catona, oggi quartiere della periferia nord di Reggio Calabria, ma un tempo sede di una importante fortificazione posta nella zona strategica dell’area dello Stretto di Messina, la troviamo nel canto VIII, terzo cielo del Paradiso. A parlare è Carlo Martello, anima del Paradiso che di sua iniziativa, alla vista di Dante, si avvicina e si rende disponibile a rispondere alle sue curiosità. Inizia dunque il dialogo con la prima domanda di Dante “Deh, chi siete?” A quel punto Carlo Martello non pronuncia il suo nome ma fornisce una serie di informazioni utili a capire chi sia. Descrive infatti i confini di quel regno del quale, se non fosse morto troppo presto (morì infatti prima di essere incoronato re), sarebbe diventato il sovrano. Parla della Provenza, dell’Ungheria ed anche del Regno di Napoli. E proprio quando deve indicare il Regno di Napoli, arriva la citazione: “ E quel corno d’Ausonia che s’imborga/ di Bari di Gaeta e di Catona, là ove Tronto e Verde in mare sgorga”. Dante, in pratica, indica in questi versi (Paradiso, VIII, vv.61-63), i confini del Regno, citandone le roccaforti, gli avamposti militari difensivi e usa l’espressione “s’imborga”, che equivale a “si fortifica”.Questi avamposti sono: Bari ad est, sul Mare Adriatico, Gaeta ad ovest sul Mar Tirreno, e Catona all’estrema punta sud, in una zona limitrofa al confine tra Mar Tirreno e Mare Ionio. Con Catona, insomma, Dante indica l’estrema punta meridionale dell’allora Regno di Napoli.

Conclusioni

A prescindere dai legami culturali che uniscono Dante alla Calabria, oggetto di questa nostra nota, ci preme, far notare, con rammarico, come ex docente di Italiano nei licei, che lo studio di Dante nella nostra scuola, negli ultimi anni, è andato sempre più riducendosi, e ciò con grave danno, a nostro avviso, della formazione dei giovani . I dati sullo studio della Commedia nelle scuole superiori e nelle università in Italia denunciano , infatti, un grave abbandono dello studio del capolavoro dantesco, e ciò mentre la Commedia è stata tradotta in tutte le lingue del mondo ed è apprezzata ovunque. Perché leggere la Commedia a settecento anni dalla sua composizione ? Il capolavoro dantesco può ancora parlare a noi uomini del terzo millennio ?   A nostro avviso, sicuramente sì. Al di là delle suggestioni e degli infiniti livelli di lettura, Dante parla ad ogni epoca e chiunque può trovarvi chiavi per rispecchiarsi nel suo poema. Come ha dichiarato ieri il presidente Mattarella in un’intervista al “Corriere della sera” “l’universalità e la bellezza di Dante vanno ricercate nella sua particolare attitudine a penetrare nel profondo dell’animo umano, descrivendone in modo coinvolgente moti, sentimenti, emozioni. La Commedia ci attrae, ci affascina, ci interroga ancora oggi perché parla di noi, dell’essenza più profonda dell’uomo, fatta di debolezze, cadute, nobiltà e generosità. Basta pensare ai tanti passi della Divina Commedia entrati nel lessico quotidiano e che utilizziamo senza sapere, sovente, che provengono dai suoi versi”.