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Vangelo della 2.a domenica di Quaresima

Transfigurazione gesu.jpgVangelo di Gesù Cristo secondo Marco 9,2-10

2 E dopo sei giorni Gesù prende Pietro, Giacomo e Giovanni[1] e li conduce su un monte alto in privato da soli; e fu trasfigurato davanti a loro. 3 E le sue vesti divennero splendenti, bianche molto, quali nessun lavandaio sulla terra può fare così bianche. 4 E fu visto da loro Elia con Mosè ed erano in dialogo con Gesù. 5 E rispondendo Pietro dice a Gesù: Rabbì, è bello per noi essere qui! E faremo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia. 6 Infatti non sapeva cosa rispondere; infatti erano spaventati. 7 E venne una nube che li copriva d’ombra, e venne una voce dalla nube: Questi è il Figlio mio, il diletto: ascoltate lui! 8 E, all’improvviso, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non il Gesù solo con loro. 9 E, scendendo dal monte, ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che videro, se non quando il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. 10E tennero la parola, tra loro discutendo cos’è il risorgere dai morti.

Lectio di don Alessio De Stefano

La trasfigurazione 9,2-13 - L’istruzione dei discepoli in questi capp. 8-10 passa attra­verso forme diverse e la scena della trasfigurazione è una di esse, ma porta i tratti della rivelazione “speciale”, fatta solo ai tre discepoli che, già nell’episodio della guarigione della figlia di Giairo, Gesù aveva portato con sé per assistere alla rianimazione della fanciulla (5,37). Il raccordo cronologico insolito e stranamente preciso («Sei giorni dopo») non può passare inosservato, giacché all’orecchio esperto o dice che siamo all’alba di un settimo giorno, quindi di un giorno di compimento, oppure, congiuntamente all’ambientazione (il monte alto), richiama esplicitamente Es 24,16 dove, dopo sei giorni sul monte in compagnia di Giosuè, Mosè viene chiamato da Dio dalla nube. Senz’altro, comunque, questo ritiro scelto, deciso, molto esclusivo, in un tempo e un luogo non neutri nella storia della salvezza, prelude a qualcosa di eccezionale. E Marco lo racconta senza fronzoli e senza preoccuparsi di descrivere esattamente in cosa consista quel “cambiare forma”, quel trasformarsi di Gesù; cerca solo di rendere la luminosità eccezionale della scena mediante un paragone, molto concreto (sacro e profano!), alle abilità di un lavandaio, volendo significare che la straordinarietà della scena non può essere opera di mani d’uomo.

L’apparizione di Elia e Mosè - soprattutto, l’ordine con il quale essi vengono menzionati - ci incuriosisce e si spiega attraverso tanti particolari di raccordo tra le loro esperienze di Dio e quella di Gesù. In primo luogo, essi sono coloro che hanno fatto una forte esperienza teofanica su un monte (l’Oreb, il Sinai), ma anche coloro che ascendono al cielo al termine della loro vita terrena (di Elia ciò viene detto espli­citamente in 2Re 2,11; di Mosè si racconta la morte terrena eppure si aggiunge che non se ne trova la tomba). Inoltre a più riprese la loro storia ha fatto da sfondo e da sceneggiatura agli episodi evangelici già visti. Soprattutto il nome di Elia è stato un vero collegamento (nome chiave) tra diverse scene di questi ultimi capitoli e sarà oggetto del dialogo seguente con i discepoli; forse questo spiega l’anticipazione del suo nome a quello di Mosè (mentre, se li considerassimo puramente rappresenta­tivi della legge e dei profeti, l’ordine dei nomi risulterebbe piuttosto strano). In questa solenne conversazione genera quasi comicità l’inappropriata parola di Pietro, che neanche stavolta coglie l’occasione più propizia di restare in silenzio.

Egli prova a darsi un tono, anche modificando il più fami­liare e consueto appellativo “maestro” (didaskale) nel più ufficiale e solenne rabbì, e si offre di preparare tre tende per rimanere lì, sul monte. Ma è l’evangelista a spiegarci subito come interpretare la sua proposta, perché commenta al v. 6 che «non sapeva infatti cosa dire, perché erano spaventati». I discepoli sono presi da paura e la paura non permette loro di capire cosa si trovano di fronte. Piuttosto, Pietro offre una soluzione che è di stallo: afferrare il sacro, congelare l’esperienza, rimanere sul monte, ossia interrompere quella sequela che comincia ad assumere tratti drammatici e non calcare quella strada che porta alla croce. Ma l’intervento di Dio che fa udire direttamente la propria voce risuona come un invito imperioso e diretto: «Ascoltatelo!». Ascoltate lui, non voi stessi o le vostre paure! Ascoltate lui, che è mio Figlio! Un istante dopo, poi, il vuoto dei sensi. Nessuna voce, nessuna presenza, nessuna luce; solo Gesù con loro. E viene il tempo di tornare giù dal monte, mentre Gesù ribadisce il consueto comando di silenzio, ma stavolta con una scadenza temporale («Fino a quando il Figlio dell’uomo non fosse ri­suscitato dai morti») che cambia la qualità dell’ingiunzione da divieto assoluto a silenzio temporaneo, preludendo a una rivelazione. I discepoli obbediscono al comando, ma crescono dentro di loro gli interrogativi, primo fra tutti il significato reale del risorgere dai morti (sebbene Gesù lo abbia già annunciato).


[1] Pietro, Giacomo e Giovanni in Marco - In Marco la scena della trasfigurazione è una delle tre nelle quali Pietro, Giacomo e Giovanni sono ammessi da Gesù ad assistere ad un avvenimento “riservato”: prima c’è stata la risurrezione della figlia di Giairo (5,37), poi ci sarà la preghiera nel Getsemani (14,33-42). Questo particolare “trattamento”, se da un lato può essere segno della vocazione primaria di tutti i discepoli a “stare con Gesù” (cf 3,14), dall’altro va anche raccordato al fatto che solo di questi tre disce­poli il narratore dice che Gesù cambiò loro il nome (cf 3,16-17), allusione alla sua autorità di fare nuove tutte le cose ma anche, plausibilmente, ad una particolare autorevolezza della missione e della predicazione dei tre.

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