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Dopo la Pandemia, l'uomo nuovo con Cristo

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Dio umanato.pngL’uomo nuovo. Forse, piuttosto che le linee di un umanesimo nuovo (che resterebbe comunque una teoria, cioè un ideale, sia pur con riverberi sociali e politici), il Dio umanato, cioè Gesù di Nazareth detto il Cristo, ha ben più che il lobo frontale del punto-Dio. Si autopropone come Dio fatto uomo, appunto. Più che un progetto, più che una teoria, più che una proposta ideale, una divina concretizzazione, performativa più ancora di una parola che induca un comportamento o una prassi. Una Parola inevitabilmente fatta Carne, la quale, più che dire quale sia la verità, ci invita a scoprire dove essa stia. Nel suo Trattato sulla Trinità, Agostino d’Ippona scriveva: «Non cercare di sapere cos’è la verità, perché immediatamente s’interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: Verità. Resta, se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità. Ma non puoi, tu ricadi in queste cose abituali e terrene. Qual è dunque, ti chiedo, il peso che ti fa ricadere, se non quello delle immondezze che ti hanno fatto contrarre il glutine della passione e gli sviamenti della tua peregrinazione?» (cap. 8,2).

Lo psicologo C. G. Jung ha scritto che in tutti i pazienti di una certa età che si erano rivolti a lui Vi era "assenza di umiltà" e che essi non guarivano finché non acquistavano un atteggiamento di umiltà. Gesù ripete anche ai tanti intelligenti e sapienti onesti che ci sono nel mondo d'oggi il suo invito pieno di amore: io sono la via, la verità e la via. A Pilato che domanda “che cos’è la verità?” (Gv 18.38), Gesù non da risposta. Sant’Agostino interpretava quel silenzio con un giuoco di parole: anagrammando la domanda di Pilato, che nel latino della Vulgatè“Quid est veritas?”, rispondeva:“Est vir qui adest”, cioè è l’uomo qui presente, la verità in persona nuda e mite.

Sul Calvario Gesù si rivela pienamente come Figlio, rimettendo al Padre quell’esistenza che è frutto del dono ricevuto dal suo amore. Il Dio Umanato, invece di dire parole e fare proposte, è il protagonista di una nuova ed eterna alleanza, come si ripete, senza monotonia, in ogni Messa: Gesù ci ha dato come soluzione uno stile e ci consegna anche un comandamento nuovo (cfGv 13,34). San Paolo parla perciò dell’uomo nuovo che vive in Cristo. Ed ancora, l’Apostolo che per primo diffonde la parola di Cristo nelle città dell’impero romano, afferma che «se uno è in Cristo, è creatura nuova; le vecchie cose sono passate, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,17). Non è un caso che anche san Giovanni nell’Apocalisse parli di cielo nuovo e terra nuova (Ap. 21,1).

Non è il Dio-Umanato la novità, colui che inaugura i tempi nuovi, anzi non era lui l’atteso dei novissima tempora? Il Dio umanato, forse, è uno stato d’animo piuttosto che una risposta definitiva, o una soluzione tecnica, o una formula magica? Ha scritto Monica Fantaci: «Gli stati d’animo/ stagioni dell’anima/ che nel suo ciclo di emozioni/ si mescola,/ cade,/ riappare/ con i piccoli granelli di fiato nel vento,/ poi con le lacrime della nuvola,/ per colorarsi con le sette note/ delle sette tinte/ nei sette giorni/ e rigenerarsi/ in fruscii che si elevano dal terriccio,/ non più invernale,/ suonato dagli archi del sole/ per dare vigore/ alla radice del fiore/ che gira attorno/ e che cammina lungo/ il corso imbevuto/ dalle catene d’acqua». Ma non sarà mai possibile al girasole camminare lungo la riva imbevuta dalle “catene d’acqua”, né al bruco di divenire farfalla, né a noi passare dall’informe balbettio e silenzio delle mura domestiche alla sfolgorante bellezza di una società ritrovata, senza una vera ascesi ed un impegno quotidiano di voler indossare abiti interiori nuovi.

Si può, forse si deve, parlare di “nuovo umanesimo”, non tanto per rifare l’Umanesimo Rinascimento moderno o contemporaneo, quanto per riferirsi a quella forma di umanità realizzata in Gesù che, a sua volta, si potrebbe realizzare nel cammino di santità, solidarietà, responsabilità, cui tutti siamo chiamati. Questa attualissima imitatioChristi non sarà mai vecchia e superata, perché non si può andare oltre Gesù Cristo, perché è Lui, per dirla in termini soltanto umani, l’esemplare autentico del mistero di Dio: è umanamente divino e divinamente umano.

Per molti, anche nel corso di questa appassionata nostra ricerca giornalistica sul come comportarsi nella lenta ripresa dopo il contagio virulento, l’essere umano è apparso non catalogabile come un concetto ben definito, ma come un’incognita eterna, la cui soluzione presuppone di credere che siamo come in un problema. Alla luce del Dio umanato, non siamo più in un dilemma (che sarebbe senza via d’uscita), ma in un problema. E ogni problema, anche con diverse incognite, presuppone comunque una soluzione. Ma forse non siamo più neppure di fronte a un problema, bensì a un mistero. Gabriel Marcel, nel suo Essere e avere del 1935, sostiene che mentre il problema è perfettamente oggettivabile nei suoi termini e soluzioni, l’essere resta un mistero, un quid  in cui mi trovo coinvolto. Di conseguenza, non ci sono calcoli e delta risolutivi. Serve soltanto disponibilità e apertura all’ulteriorità: mentre si guarda al corpo che abbiamo, che si ammala, che guarisce, che è contagiato, ci si accorge che siamo il corpo. E l’essere il corpo non può ridursi al solo divenire biologico, cioè agli esclusivi ritmi di nascita e di morte, di malattia e guarigione.

Mentre si guarda alle antiche soluzioni praticate, ci si accorge che quasi non esistono soluzioni. Si parte dalle domande che la situazione presente pone, soprattutto dalle situazioni della ricerca scientifica, che nasce appunto come enfasi sul dato di fatto, da cui partire per scoprirne le “norme”: dopo la pandemia, partendo dai dati statistici, si cerca di stabile se clinicamente il virus è stato sconfitto, o se sue propaggini potrebbero dar luogo a una seconda ondata. Ma ci si accorge ben presto che non ci sono situazioni soltanto umane, le quali vivono solamente del “dato”, che si accontentano cioè dei traguardi raggiunti, dei problemi da risolvere e risolti e continuano a risolvere i nuovi eventi rifacendosi al passato e alla tradizione, ai paradigmi consolidati e provati scientificamente, non ammettendo l’imprevedibilità del mistero. In ogni situazione concreta l’uomo sente che c’è dell’altro; immagina qualcosa di diverso, di migliore, di più completo; qualcosa che risponda meglio alle sue domande che si aprono a tutta la realtà; che realizzi meglio i suoi desideri che sono infiniti. Quasi un processo che sembra non avere una conclusione (un circolo infinito di interpretazioni, direbbe Hans Georg Gadamer). Eppure questo processo, ormai generato e causato dalla pandemia, non partirà mai da zero, ma da quella sintesi di cultura cristiana che l’uomo ha raggiunto in un certo tempo ed in un certo spazio. Tuttavia, il passaggio da una cultura classica normativa ad una cultura empirica dinamica richiede attenzione, intelligenza, creatività, coraggio, pazienza, saggezza, perché si tratta di rifondare una serie di convinzioni che, all’interno di una cultura precedente, potevano essere date per scontate. La confusione di valori, della quale siamo testimoni, a volte infastiditi altre impauriti, ne è il segno evidente ed inquietante sul piano dei comportamenti e delle scelte etiche di riferimento.

In che rapporto, dopo la pandemia, tutto può continuare a sussistere con la realtà di un Dio umanato? In che cosa la fede cristiana contribuirebbe a questo sforzo comune dell’uomo di risalita da una china in cui tutto non sarà più come prima? Se la fede in un Dio umanato non risolve tutti i problemi, in quanto mistero, diviene tuttavia un possibile orizzonte di pensiero, di vita e di azione. Anche una sorgente di desideri e impulsi che permetteranno, forse, di collocare le nostre prossime domande in un contesto positivo e fecondo, che faciliti l’analisi e conferisca, si spera, un significato ultimo a tutta l’impresa umana, che urge sia definita e, soprattutto, attuata. Ripetiamo con Terenzio: “Homo sum: humanum nihil a me alienum puto” (Heaut., 77). Insieme, e con fiducia, quasi facendoci gli Efesini della Lettera paolina, rivestendoci «dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità» (Ef 4,24).

+ P. Vincenzo Bertolone S.d.P.

Arcivescovo di Catanzaro Squillace