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Vangelo di Marco, Gesù raccontato dal popolo

san marco - preti.jpg(foto: Il dipinto raffigurante San Marco è del pittore calabrese Mattia Preti ed é esposto nelle sale della Galleria di Palazzo Arnone a Cosenza)

La scorsa domenica, Prima d'Avvento, é iniziato , per la Chiesa Cattolica, il nuovo anno liturgico, col vangelo di Marco. Pare che sia il più antico dei Vangeli, basato sulla predicazione di Pietro. Don Alessio De Stefano ne ha preparato una Sintesi  che abbiamo letto con grande interesse e abbiamo pensato di fare cosa grata  ai nostri lettori proponendola sul sito. Ringraziamo don Alessio che puntualmente ci invia stille della sua cultura teologica con i seguitissimi commenti al vangelo della domenica e ora per questa "dissertazione" sul vangelo di Marco quanto mai puntuale ed azzeccata. (La redazione)

VANGELO SECONDO MARCO

INTRODUZIONE

Il vangelo di Marco sembra costituito da una serie di piccole unità, collegate insieme in modo artificioso, mediante l’aggiunta di qualche ver­setto redazionale. Lo stile è ruvido, il linguaggio semplice e popolare, ma non privo d’una vivacità descrittiva pittoresca per molti episodi. Fin dall’antichità è stata rilevata la mancanza di organicità nella sua composizione.

Non conosciamo l’accoglienza che Mc ebbe nel primo secolo della chiesa. Ma se è vera l’ipo­tesi che si trattava del primo tentativo di inqua­drare le molteplici tradizioni ecclesiali su Cristo in una successione cronografica, in modo da dare l’impressione d’un racconto continuo della vi­cenda storica di Gesù, si può immaginare facil­mente la sua fortuna. Infatti, si impose rapida­mente in tutta la cristianità. Ma dopo la pubblicazione degli altri vangeli dovette subire una eclissi, Papia sembra rivendicarne apologetica­mente la validità, osservando che, nonostante la mancanza di ordine, Mc riproduce fedelmente la predicazione di Pietro. Tuttavia, nella liturgia e anche nella letteratura patristica, Mc è sempre stato abbastanza trascurato per l’apparente mancanza di originalità e profondità cristologi­ca. Infatti ha appena una cinquantina di versetti propri; tutto il materiale restante si trova in Mt e in Lc, ma strutturato in modo più organico e reinterpretato in sintesi dottrinali più omogenee e chiare.

Nel secolo scorso si ebbe come una riscoper­ta di Mc a livello critico-letterario, che venne considerato dalla critica-storica il vangelo più antico e la fonte principale per la parte narrativa di Mt e Lc. La teoria delle due fonti, nonostante i ripetuti attacchi, le riserve, le precisazioni, continua a far discutere nel campo esegetico internazionale. Il redattore di Marco venne, pertanto considerato l’inventore del genere del “Vangelo”. La sua opera assicurò quel carattere storico della rivelazione cristiana che andava necessariamente salvaguar­dato. Infatti la fonte Q, ritenuta più anti­ca, si limitava a trasmettere i detti di Gesù, ma in maniera essenzialmente kerigmatica, quasi staccandoli dalla situazione storica vitale in cui avevano avuto origine. Mc contempera nel suo lavoro l’aspetto didattico con l’elemento narra­tivo, anche se non si propone di fare opera da storico, ma da «evangelista». Il vangelo di Mc ha assunto un grande valore anche a livello storico, poiché si è osservato che riproduce fedelmente il patrimonio evangelico formatosi nella chiesa primitiva, che considera sacrosanto e intangibile. Invece di elaborare grandi sintesi teologiche personali, scomponen­do e aggiustando il materiale tradizionale, pre­ferisce riportarlo integralmente. Di qui l’impor­tanza del suo vangelo per risalire alle tradizioni più arcaiche della chiesa sul mistero della perso­na di Gesù. Tuttavia Mc non persegue un inten­to storico, ma si prefigge di trasmettere in ma­niera fedele le tradizioni evangeliche, per rav­vivare la fede nelle comunità cristiane, provate dalle persecuzioni, solcate da fermenti di inquietudine per il ritardo della parusia (presenza del divino) del Signo­re, per la propaganda apocalittica di falsi mae­stri, per la situazione sociale e politica turbolen­ta.

Ma Mc merita grande considerazione anche sotto il profilo teologico e non soltanto perché ritenuto il primo esempio del genere letterario «evangelo» e più vicino alla realtà storica della vita di Gesù. Infatti, all’inizio del nostro secolo, W. Wrede con la teoria del “segreto messianico”, nonostante l’impostazione razionalistica inaccettabile, apriva la strada per un’analisi dottrinale di Marco più approfondita, che avrebbe portato copiosi frutti in seguito. Con l’afferma­zione del metodo della “storia delle forme”, la frantumazione di Mc pareva codificata, e sem­brava precluso ogni tentativo per la ricerca d’u­na linea teologica, che conferisse una certa uni­tà all’opera. Ma negli anni cinquanta si ebbero degli apporti determinanti per la rivalutazione di Mc anche in campo teologico. Alcuni commenti (Taylor e Marxsen) aprirono nuove vie inesplorate. Si è visto che l’interesse accentuato per l’umani­tà di Cristo e l’impostazione antropologica e bi­blica della teologia dopo il concilio Vaticano II hanno favorito una più penetrante riflessione sulla cristologia arcaica di Mc, per cogliere i tratti più significativi del mistero di Gesù.

II vangelo di Mc, quindi, dopo un lungo pe­riodo di eclissamento, durato parecchi secoli, è stato riscoperto. Ora gode d’una rilevanza di primo piano nello studio del Nuovo Testamento, del quale co­stituisce una pietra miliare per avvicinarsi alla persona del Cristo, Uomo-Dio.

  1. 1.Contenuto del vangelo di Marco

Prima di ricercare il piano generale che sta alla ba­se di Mc e che ne dovrebbe esprimere il dinamismo profondo, sembra opportuno dare uno sguardo a tutta l’opera, individuandone i probabili raggruppamenti forse premarciani, le articolazioni più significa­tive. Si tratterà d’un primo approccio per conoscere il contenuto di Mc, per segnalarne i sommari, le anno­tazioni redazionali, topografiche e cronologiche, e an­che per rilevarne alcuni motivi conduttori. Quindi se­guirà un’analisi del piano strutturale e del messaggio teologico di Mc.

Preparazione al ministero pubblico (1,1-13)

Dopo l’intestazione (v. 1), Mc premette come pre­ludi al suo vangelo l’attività del Battista, il battesimo e la tentazione di Gesù. Questo trittico, denominato «l’inizio del vangelo», rappresenta una ouverture mol­to significativa, perché anticipa in modo sintetico le tematiche cristologiche più importanti: Gesù è il Mes­sia che attuerà la sua missione sulla linea del Servo sofferente di JHWH, addossandosi i peccati dell’uma­nità intera. Fin dall’inizio, la sua attività è contrasse­gnata dall’azione carismatica dello Spirito Santo, che lo assisterà e lo guiderà nel difficile cammino per com­piere la volontà del Padre sino alla morte in croce.

Inizio del ministero in Galilea (1,14-45)

La sezione si apre con un caratteristico sommario (vv.14-15). che numerosi esegeti uniscono alla sezione precedente, perché forma un’inclusione con il v.1. dopo aver segnalato il tema centrale della predicazione di Gesù, Mc fa seguire la chiamata dei primi quattro discepoli (vv.16-20), il primo nucleo degli amici intimi di Gesù, dei testimoni e continuatori della sua opera. Questo episodio, la scelta dei Dodici (3,13-19), la loro missione (6,7-13) e la confessione di Pietro (8,27-30) sembrano scandire le volte principali del Vangelo. La descrizione di un “sabato a Cafarnao” (vv.21-34) rappresenta una giornata tipo dell’attività di Gesù, il quale insegna “con autorità” e compie segni straordinari per dimostrare la sua potenza divina. Il primo esorcismo (vv.23-28) apre la serie di gesti miracolosi, quale preludio alla vittoria di Gesù su Satana. Il brano conclusivo (vv.32-34) costituisce un secondo sommario con cui l’evangelista sottolinea l’efficacia del potere taumaturgico di Gesù sui malati e sugli indemoniati. Nel v.35 si ha un cambiamento dello scenario topografico per sottolineare altri due aspetti del ministero di Gesù: la preghiera e il carattere itinerante della sua attività. Il miracolo del lebbroso (vv.40-45) chiude come momento culminante la prima fase del ministero di Gesù e serve di passaggio alle successive controversie con i rappresentanti del giudaismo.

Le cinque controversie galilaiche(2,1-3,6)

Questa raccolta di dispute è strutturata in modo unitario e simmetrico. La prima e l’ultima controversia includono due miracoli. Le prime due trattano del rapporto di Gesù con i peccatori, la terza propone il tema della gioiosa presenza messianica dello Sposo, la quarta e la quinta hanno per oggetto il riposo sabatico. Probabilmente questa sezione caratteristica si era formata nella chiesa a scopo apologetico e Mc l’ha inserita a questo punto per orientare il lettore verso il dramma della passione. Infatti, mentre nel primo capitolo Gesù appare circondato da folle entusiaste, qui entrano in scena gli scribi e farisei, i quali si accordano con gli erodiani per sopprimere Gesù (3,6). Si profila così la contrapposizione delle genti del giudaismo, che sfocerà nel dramma della croce, con l’assassinio del Giusto. Le cinque controversie sono strutturate uniforme; cinque episodi servono ad inquadrare rispettivamente un detto forte e incisivo di Gesù, che costituisce il punto culminante (la pointe) delle singole unità. Per questo genere di racconti, chiamati apoftegmi o paradigmi, l’interesse dell’evangelista si concentra sulla risposta chiarificatrice di Gesù, che diviene esemplare e risolutiva anche per i discepoli nelle discussioni all’interno della chiesa e nei dibattiti dottrinali con il giudaismo. Probabilmente a questo scopo apologetico ebbe origine questa raccolta nella tradizione ecclesiale vangelo, anche per risolvere alcune liti sorte in seno alla comunità per l’aggregazione di numerosi credenti provenienti dal paganesimo.

Segno di contraddizione (3,7-35)

È difficile trovare il filo logico che lega i brani di questa sezione. «E una specie di sintesi prolungata in cui l’evangelista espone le reazioni dei diversi gruppi». Il primo brano (vv. 7-12) costituisce il sommario più sviluppato in Mc e segna il passaggio a un’altra grande articolazione del vangelo. Come il primo somma­rio (1,13-14), è seguito da un episodio riguardante i discepoli, la scelta dei Dodici (vv.13-19), che corri­sponde strutturalmente alla chiamata dei primi quattro (1,16-20). Il brano seguente (vv.20-35) contrap­pone la vera famiglia di Gesù, formata dai discepoli credenti, ai familiari increduli e agli avversari, che lo calunniano. L’attività didattica e taumaturgica di Ge­su ha un effetto discriminante. Mentre una cerchia ri­stretta di discepoli si unisce a lui sempre più stretta­mente, le guide spirituali d’Israele gli si accaniscono contro con ostilità crescente. passando dalle controv­ersie alle calunnie infamanti; i parenti si preoccupano del suo equilibrio psichico, credendolo impazzito. Attorno a Gesù si coagulano due gruppi contrapposti: quello dei nemici ostili, che intendono farlo perire, e quello dei discepoli, che formano la sua nuova fami­glia a lui congiunta non da legami di sangue, ma da vincoli spirituali, fondati sull’adesione piena alla vo­lontà di Dio.

Insegnamento in parabole (4,1-34)

Abbiamo qui una unità letteraria più definita, che ha lo scopo di illustrare il mistero del regno ai discepoli­. È il primo dei rari brani discorsivi di Mc, abba­stanza esteso. Nonostante l’apparente forma unitaria risulta composto da vari strati successivi. Le tre parabole riguardanti il seme (vv. 3-9.26-32) sono separate da una pericope che illustra lo scopo delle parabole (vv.10-12), dalla spiegazione della parabola del semi­natore (vv.13-20) e dai due detti parabolici della lucerna e della misura (vv.21-25); la conclusione (vv.33-34) attenua il senso minaccioso e negativo del v. 12 sullo scopo delle parabole, ma ribadisce il valore enigmatico del linguaggio parabolico, che viene tutta­via decodificato per i discepoli.

Libretto dei miracoli (4,35-5,43)

Alle cosiddette «parabole del lago» segue un raggrup­pamento di quattro miracoli, selezionati con accura­tezza, per presentare Gesù come dominatore degli elementi naturali (tempesta sedata), del potere diabolico (indemoniato di Gerasa), delle malattie (guarigione dell’emorroissa), persino della morte (risu­rrezione della figlia di Giairo). Alcuni commentatori spiegano la vivacità narrativa di questa sezione per diretta dipendenza di Mc dalla predicazione di Pietro; ma forse è più probabile che derivi anche questa raccolta dei «miracoli del lago» da una fonte preesistente, alla quale altri aggiunge anche 6,32-52. L’evan­gelista ha narrato altre storie di miracoli (cf.1,21-45;2,3-12;3,1-6), ma inquadrandole in contesti diversi,mentre qui si propone di accentuare la forza taumaturgica di Gesù. Nell’PT per il tempo messianico erano previsti prodigi straordinari, quale irruzione delle forze del regno di Dio nel mondo.

Crescente ostilità contro Gesù e incomprensione dei suoi discepoli (6,1-8,26)

Sono molto discusse l’ampiezza e l’unità di questa sezione. L’episodio di Nazareth è considerato general­mente come la conclusione della precedente sezione (3,7-6,6a). Mentre il conflitto per la guarigione della mano arida (3,1-6) dimostrava la cecità degli espo­nenti dei giudei, ora la cacciata da Nazareth rileva la cecità e incomprensione del popolo, che preludono al rifiuto finale e alla morte di Gesù. Lo suggerisce an­che la tragica sorte del Battista. Gli esegeti riconoscono l’unità della sequenza 6,30-8,26, che chiamano «sezione dei pani» per l’uso frequente del termine-chiave «pane», dei verbi «man­giare» e «saziarsi». Gesù appare come il pastore d’I­sraele, che sfama il popolo messianico con un pane prodigioso. Si osserva un allargamento dell’orizzonte della sua missione in senso universalistico, per i primi contatti con l’ambiente pagano; però aumenta anche l’incomprensione nei suoi confronti persino da parte dei discepoli, la cui inintelligenza viene sottolineata crudamente in 6,52 e 8,14-21. All’interno della “sezio­ne dei pani” si ha una certa simmetria tra il brano 6,30- 7,37 e 8,1-26.

Gli elementi dei due cicli si corrispon­dono: moltiplicazioni dei pani (6,30-44; 8,1-10), incomprensione dei discepoli (6,52; 8,14-21); discussio­ni con i farisei (7,1-23; 8, 11-13); miracoli conclusivi (7,31-37; 8,22-26). Forse si tratta d’un duplice svilup­po della tradizione dei medesimi fatti, che Mc ha ri­portato in successione, in base al criterio della massi­ma aderenza alle fonti, considerate intangibili.

Rivelazione del mistero di Cristo (8,27-10,52)

La confessione messianica di Pietro segna la svolta decisiva nell’impostazione drammatica del secondo vangelo. È il «punto di arrivo e lo scioglimento di una tensione lungamente accumulatasi nelle pagine prece­denti», ed è«un punto di partenza» per la compren­sione del Messia crocifisso. Il riconoscimento di Pietro rappresenta la prima tappa della rivelazione della vera identità di Gesù. Fino a questo punto l’accento cadeva sull’intelligenza della persona del Maestro; in seguito verrà ribadito il tema della sequela sulla via della croce. I Dodici hanno ri­conosciuto per bocca di Pietro che Gesù è il Messia, nonostante le apparenze umili e l’insignificanza della sua attività, che si concludeva in Galilea con un appa­rente fallimento. Ora Gesù cerca di preparare i disce­poli allo scandalo della passione con una triplice pre­dizione della sua sorte (8,31; 9,31; 10,32-34). Egli è veramente il Messia, ma sulla linea del Servo soffe­rente, che deve dare la propria vita per la salvezza dei peccatori. «L’evangelista utilizza la descrizione del viaggio a Gerusalemme con le tre profezie di soffe­renza e risurrezione, per impostare una grande istru­zione della comunità sotto il concetto guida della se­quela sulla via della croce». Sembra che Mc strutturi tutta la sezione, in base alle tre pre­dizioni, in tre cicli. Ogni annuncio della passione è seguito da un brano didattico che ribadisce per i di­scepoli la necessità della rinuncia, dell’umiliazione, del sacrificio, per seguire Gesù (8,34-9,1; 9,33-37; 10.35- 45). A ognuno di questi brani, centrati sulla ri­nuncia, corrispondono tre episodi che manifestano la gloria e la potenza di Gesù; la trasfigurazione (9,2-9), la discussione sull’esorcista estraneo (9,38-41), la gua­rigione del cieco Bartimeo (10,46-52). La sequenza 9,42-10,31 sembra un’inserzione didattica per la co­munità, contenente delle istruzioni sullo scandalo, sull’indissolubilità del matrimonio e sul pericolo delle ricchezze.

Ministero a Gerusalemme: confronto decisivo con il giudaismo (11-13)

Mc inquadra in questa sezione l’attività finale di Gesù presso il tempio. Si può suddividere in tre parti: 11,1-25, ingresso messianico a Gerusalemme, maledi­zione del fico e scacciata dei profanatori del tempio; 11,27-12,44 cinque controversie con i capi dei giudei; 13, discorso escatologico. Gesù in precedenza aveva sempre occultato la sua identità messianica; ora agisce con decisione sovrana, compiendo gesti clamorosi, rivendicandosi un’autori­tà e prerogative trascendenti. L’ingresso a Gerusa­lemme manifesta tuttavia il carattere umile, pacifico e spirituale del suo messianismo. La maledizione del fi­co, la scacciata dei profanatori sono gesti profetici. I cinque conflitti secondo qualche esegeta si rifanno a un complesso premarciano, corrispondente alle con­troversie galilaiche (2,1-3,6). Però non si tratta d’una sezione unitaria, perché dopo la prima disputa viene inserita la parabola dei vignaioli omicidi; la quarta di­sputa sembra un dialogo didascalico, che si risolve in un elogio per lo scriba interrogante; il quinto brano appare un monologo di Gesù, aggiunto alle dispute precedenti. Il discorso escatologico èforse un’inser­zione, motivata dalla tensione apocalittica determina­ta dalla guerra giudaica (66-70 d.C.). Gesù offre l’ul­tima opportunità al giudaismo ufficiale di riconoscer­lo come il Messia aspettato da secoli; ma viene rifiuta­to. Da qui scaturisce l’esclusione della maggioranza dei giudei dal popolo messianico.

Passione e risurrezione di Gesù (14-16)

È la fase culminante verso cui tende tutto il vange­lo. Si ha la rivelazione totale del mistero di Cristo, at­traverso la sua crocifissione. I fatti risultano concate­nati in maniera insolita. Tuttavia l’evangelista non persegue una finalità storica o cronachistica, perché omette tante informazioni, indispensabili per una ri­costruzione storica del dramma della passione. Egli mira soprattutto a cogliere il significato profondo del­l’atto supremo della vicenda storica di Gesù, quale espressione dell’intervento definitivo di Dio nel mon­do per la salvezza dell’umanità, mediante la morte espiatoria del Servo sofferente.

Divisione della sezione in tre parti in base alle articolazio­ni di tempo, di luogo, e ai personaggi: 14,1-52, dal tradimento di Giuda all’arresto di Gesù; 14,53-72, la condanna di Gesù e il rinnegamento di Pietro; 15,1-16,8, dalla consegna a Pilato all’annuncio della risur­rezione. Altra probabile divisione è imperniata sul complotto contro Gesù (14,1-11) e sull’ultima ce­na (vv.12-25), e tre cicli della passione propriamente detta: ciclo del Getsemani (14,26-52); ciclo dei pro­cessi religioso e civile (14,53-15,20); ciclo della croci­fissione e morte con l’appendice della sepoltura (15,21-47). La risurrezione (16) èconsiderata a parte.

II. Il piano generale del vangelo di Marco

Mc descrive lo svolgimento drammatico della vita di Gesù, ma preoccupandosi soprattutto d’essere fedele alle fonti; anziché di elaborare una sintesi personale del mistero di Cristo, secondo un progetto logico e una struttura organica. Gli esegeti hanno proposto parecchi piani ma senza raggiungere un accordo. In base ai numerosi richiami geografici alcuni hanno indicato la seguente divisione: preparazione al ministeropubblico, che ha come teatro la depressione delGiordano (1,1-13); ministero di Gesù in Galilea e dintorni (l,14-9,50); ministero oltre il Giordanoe in Giudea (10); ministero a Gerusalemme(11-13); passione e risurrezione (14-16). Questo schema geografico, seguito da Mt e Lc, risulta alquanto generico per evidenziare il dinamismo dottrinale di Mc. Tuttavia sembra che sia stato Mc a creare artificialmente questo quadro “che indica come il cammino di Gesù sia orientato alla fine in Gerusalemme”, dopo un periodo di attività in Galilea.

III. La lingua e lo stile di Marco

L’evangelista usa la lingua greca popolare (koinè) parlata in quasi tutto il bacino mediterraneo. Tuttavia il sostrato dell’opera manifesta chiaramente la sua origine in ambiente semitico.

Lo dimostrano gli artifici letterari, le parole-richiamo, i parallelismi, le inclusioni, la sintassi, lo stile.

1. Il lessico marciano è povero. Su 11.078 parole si hanno appena 1.345 termini diversi, di cui una ottantina non compaiono altrove nel NT (hapaxlegomena). È molto frequente l’uso di alcuni avverbi, come «subito», «di nuovo», «molto». Mc ricorre con monotonia ai verbi ausiliari «essere», «avere», «incominciare», «volere», «fare», «potere», senza preoccuparsi di variarli con qualche sinonimo. Insiste su alcuni termini più degli altri due sinottici, come «insegnamento», «insegnare», «vangelo», «guardare attorno», «tacere». Riporta più espressioni aramaiche degli evangelisti, ma si preoccupa sempre di tradurle ai suoi lettori: Boanerges (figli del tuono), talithàKum (giovanetta, alzati), korbàn (offerta), effatà (apriti!), Bartimeo (figlio di Timeo), abbà (padre), Golgota (cranio), Eloi, Eloi, lamàsabacthàni («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato»).

Sono frequenti anche i latinismi (= parole trascritte in greco): denaro, censo, quadrante, centurione, legione, guardia (= speculator), lettuccio, brocca, flagellare. - In Mc abbondano anche i diminutivi: figlioletto, barchetta, cagnolini, orecchio (al dim. in 14,47), sandali (6,9), ecc.

2. La sintassi non riflette soltanto lo stile popolare, ma anche la provenienza dal mondo semitico. È caratteristica l’abbondanza con cui Mc usa la costruzione perifrastica, il participio, il presente storico (141 volte in Mc, 78 in Mt, 4 in Lc), la doppia negazione,il plurale impersonale. È tipica di Mc anche la ridondanza dei pronomi personali. Spesso mescola i tempi dei verbi. E molto largo l’uso della paratassi, cioè la coordinazione delle frasi mediante la particella Kài(=e), invece della subordinazione dei vari elementi d’un periodo. Sono numerosi anche gli asindeti (38), cioè la mancanza di collegamento con particelle delle varie parti del discorso. Si riscontrano in Mc numerosi anacoluti (frasi sospese e incomplete), pleonasmi (espressioni ridondanti).

3. Lo stile di Mc denota lo sfondo culturale semitico per lo schematismo dei racconti, modellati sul medesimo cliché letterario (cf. l’esorcismo in 1,23-27 e la tempesta sedata in 4,35-41; le guarigioni del sordomuto, 7,32-36, e del cieco di Betsaida, 8,22-26; l’ingresso a Gerusalemme, 11,1-6, e la preparazione dell’ultima cena, 14,13-16). - Sono considerati procedimenti letterari tipici di Mc la dualità di espressioni (doppi imperativi, doppie domande, doppie negazioni, ecc.) e la tecnica delle interpolazioni/sandwich (cf. il miracolo dell’emorroissa incluso in quello della risurrezione della figlia di Giairo, 5,21-43; la morte del Battista tra l’invio e il ritorno dei Dodici dalla missione,6,6b-30;la purificazione del tempio tra la maledizione del fico e la constatazione che era seccato, 11,12-25).Nonostante la povertà di vocabolario, la sintassi sgraziata e ruvida, lo stile di Mc si fa apprezzare per la sua immediatezza e vivacità narrativa, che sembra riprodurre la predicazione di qualche testimone oculare­. Accanto a brani sbiaditi, schematici e stereotipi si riscontrano narrazioni ricche di dettagli pittoreschi, sembra che Mc si sia preoccupato di rielaborare letterariamente il materiale tradizionale. Egli non fa altro che registrare la tradizione come la trova. Alcuni esegeti attribuiscono al vangelo di Mc una doppia origine: dalla viva predicazione di Pietro e dalla tradizione schematica della comunità.

IV. Il messaggio teologico di Marco

L’evangelista si è preoccupato di trasmettere con fedeltà il patrimo­nio evangelico tradizionale. Inoltre risulta che non si è sforzato di rielaborarlo con notevoli interventi personali, per creare un piano armonico e per porre una sintesi dottrinale originale. Non è concorde il giudizio degli esegeti sull’apporto specifico di Mc nella redazione del suo vangelo.Riesce problematico ogni tentativo per cogliere filo logico che rappresenti la componente di fondo unificante l’opera, data la sua origine di carattere compilatorio. Scrive R. Pesch: «Il re­dattore Mc non èun inventore, bensì un elaboratore di tradizione; il suo comportamento non è tanto letterariamente produttivo quando illett­erariamente conservativo». Siccome Mc, secondo la maggioranza degli studiosi, ci trasmette la tradizione più arcaica del vangelo, in questa breve esposizione si trovano le tematiche più importanti, concer­nenti il regno di Dio, la missione di Gesù e l’istituzione della chiesa, cercando di mettere in evidenza gli apporti peculiari di Mc, di individuare alcuni archi di pensiero, che abbracciano l’in­tero vangelo.

  1. 1.Il regno di Dio

Costituisce il motivo dominante in tutti e tre i sinottici. L’espressione (basiléiatoùTheou in greco) si riferisce alla regalità, alla sovranità e signoria di Dio sul mondo. L’essenza della pre­dicazione e della missione di Gesù consiste nella proclamazione e nella instaurazione del regno di Dio. Mc per designare tale opera del Cristo ri­corre spesso al termine «vangelo», una parola chiave che usa otto volte (Mt solo 4 volte, Lc0 volte). Egli apre il libro con l’espressione «inizio del vangelo», che conferisce al suo lavoro un’intonazione di ottimismo per la manifestazione della salvezza. La parola «vange­lo» in senso assoluto indica la testimonianza apostolica sull’intervento decisivo di Dio nella storia umana mediante l’opera del Cristo per l’attuazione del suo regno di amore e di pace.

  1. 2.Gesù è al centro del vangelo di Marco

Fin dalla intestazione Gesù è presentato co­me il Cristo (= Messia) e Figlio di Dio (1,1). Il tema del regno resta sempre sullo sfondo; però la sovranità di Dio sul mondo si manifesta con­cretamente nella parola e nell’opera di Gesù. Mc insiste sull’insegnamento di Gesù, ma lo su­bordina alle sue gesta, soprattutto ai miracoli, che svelano progressivamente il mistero della sua persona. Tuttavia la sua predicazione non è accolta dal popolo ebraico, e ciò determina l’opposizione, che sfocerà nel dramma della croce. Gesù appare il Giusto perseguitato, il Servo sofferente, il Figlio dell’uomo che attua la salvezza con il sacrificio della propria vita.

a) I titoli attribuiti a Gesù.

Hanno una notevole importanza per definire la cristologia. In Mc se ne incontra una vasta gamma.

Gesù ricorre 81 volte in Mc in senso familiare, senza connotazioni teologiche. Una volta è unito Cristo (1,1) e quattro a Nazareno. In 16,19 si ha “Signore Gesù”. Questo uso atipico del nome di Gesù indica il carattere arcaico del vangelo di Mc. Solo in Mc 6,3 Gesù viene detto «figlio di Maria», l’unicavolta in tutto il NT.

Cristo (= Unto, Messia) è usato 7 volte. Gesù non si attribuisce mai questo titolo, che diverrà quello più corrente nel NT per indicare la sua messianicità trascendente, la sua regalità.

Figlio di David è usato solo tre volte (di cui due da Bartimeo) con una evidente allusione messianica.

Signore (= Kyrios) in bocca della cananea (7,28) assume il senso di «rabbi»; sembra avere un senso forte per indicare la sua dignità divina e regale 11,3, dove è usato in senso assoluto. Tuttavia in Mc generalmente «Signore» ha un senso funzionale e teologico come in Mt e Lc.

Rabbi-Maestro: rabbi è riferito a Gesù tre volte, rabbuni una volta (10,51, più enfatico di rabbi). Maestro (= didaskalos) ricorre dodici volte. Sono i discepoli e la gente che lo chiamano Maestro con rispetto. Una volta Gesù lo attribuisce a se stesso con un senso più profondo, quando manda i discepoli a fare i preparativi per la cena pasquale (14,14).

Profeta è usato dagli altri; solo una volta Gesù lo riferisce a sé indirettamente, parlando del profeta disprezzato nella sua patria (6,4). Presto la chiesa lasciò cadere tale titolo perché non esprimeva adeguatamente la sua fede messianica in Gesù.

Figlio dell’uomo è il titolo più frequente con cui si chiama Gesù. Esso rappresenta la traduzione di enashà (oppure di bàrenàsh, in aramaico) che significa semplicemente «uomo» (cf. Ezechiele e Daniele).

Figlio di Dio costituisce il culmine della fede cristi­ana, perché esprime la realtà profonda del Cristo. Ricorre quattro volte in Mc: all’inizio (1,1) indica la fede dell’evangelista; in 3,11 (e 5,7) è proferito dagli indemoniati; durante il processo, Caifa domandò a Gesù: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio?» (14,61); il centurione fa una vera professione di fede cristiana, esclamando: «Davvero, quest’uomo era Figlio di Dio (15,39).

b) «Il segreto messianico».

Questo tema è considerato da numerosi commen­tatori la vera chiave di lettura di tutto il vangelo di Mc; altri lo escludono. Gli esegeti sembrano in bilico fra due estremi: da una parte quel­lo di unificare sotto tale etichetta tutta una serie di fe­nomeni diversi, dall’altra quello di negare ogni con­nessione, frantumando questa tematica in una serie di casi da spiegare ognuno per conto suo, fino a nega­re l’esistenza stessa del problema. L’inventore della teoria del «segreto messianico» è W. Wrede (1901) che ha segnato una svolta decisiva per l’interpreta­zione teologica di Mc.

In realtà, il messianismo di Gesù non doveva solo manifestarsi, ma anche attuarsi progressivamente, percorrendo il cam­mino del Servo sofferente. Egli sarebbe stato il Messia crocifisso. È proprio nel sacrificio sul Golgota che si attuò la sua messianicità, secon­do il progetto salvifico del Padre. Pur essendo già Messia egli non sarebbe stato Messia - compimento del suo destino. Gesù divenne Christòs e Kyrios, ma attraverso la morte in croce e la risurrezione. Così i Dodici hanno compreso la messianicità di Gesù, ma la loro ignoranza per­mane e non fanno grandi progressi, nonostante i preannunzi della passione. Sanno che Gesù è il Messia, ma solo dopo la Pasqua comprenderan­no che doveva essere il Messia crocifisso, che espia i peccati del mondo. Solo allora si svelerà per essi il mistero della persona di Gesù.

c) La chiesa e la sua missione

Mc non nomina mai la chiesa, ma il suo pen­siero è rivolto ad essa in tutta l’opera, con la quale intende sostenerl in un periodo di diffi­coltà e di crisi, e spronarla nella sua missione di testimonianza del vangelo. A questo scopo l’e­vangelista accentua il ruolo dei discepoli, la cui presenza è annotata in ben 498 versetti (su 671 del vangelo). Non è facile stabilire quando Mc con il ter­mine «discepoli», usato 46 volte, si riferisca al gruppo ristretto dei Dodici oppure alla cerchia più larga di seguaci di Gesù. Ma come abbiamo visto sopra, sono gli episodi della vocazione, della scelta e missione dei Dodici che scandisco­no le articolazioni più importanti del vangelo di Mc.

Il discepolato non è una istituzione nuova. Anche i rabbini avevano dei discepoli, ai quali trasmettevano la conoscenza della Torah mosai­ca e della tradizione dei padri. Il discepolato con Giovanni Battista e anche presso gli esseni di Oumràn aveva assunto nuove caratteristiche rispetto al giudaismo ufficiale. Gesù, pur rifa­cendosi alla prassi rabbinica, dà un senso nuovo al discepolato, che si caratterizza soprattutto per la comunione di vita e per la sequela. a) Mc parla anche dei discepoli in senso lar­go. Essi si distinguono dalla folla (= òchlos), da «quelli di fuori» (4,11). Molte persone accorre­vano a Gesù ma solo per la bramosia di vedere miracoli, per acclamare il Taumaturgo, e non per convertirsi e aderire profondamente al suo insegnamento. I discepoli, invece, riconoscono Gesù come Messia, credono che Dio sta attuan­do il regno attraverso la sua opera, perciò lo se­guono. È per la loro fede, per la disponibilità alla comprensione e alla sequela che i discepoli di Gesù si distinguono dagli altri. «Il mistero di Gesù è presentato in Marco sotto forma di viag­gio dalla Galilea a Gerusalemme. Questa venu­ta s’identifica con la venuta messianica e Gesù ripete il suo appello a seguirlo ... Il discepolo entra così nel movimento messianico ed escato­logico di Gesù» (Rigaux, p. 153). Questo cam­mino dei discepoli non è uniforme e continuo, data la loro inintelligenza, ma Gesù li aiuta e il­lumina con la sua parola.

b) I Dodici, tra i numerosi discepoli che se­guivano Gesù, occupano un posto privilegiato. Ad essi egli riservò una chiamata e una forma­zione a parte. I «Dodici» sono menzionati in Mc 11 volte. Tale appellativo sembra quello origi­nario; solo più tardi vengono denominati «apo­stoli» o «dodici apostoli». I primi quattro di loro sono chiamati all’inizio del ministero di Gesù, quali testimoni immediati della sua missione (1,16-20). Ma l’istituzione dei Dodici, avviene più tardi sul monte (3,13-19), dopo i primi scon­tri con gli scribi e i farisei. L’opposizione del giudaismo ufficiale determina Gesù a istituire i Dodici, che avrebbero formato la cellula germi­nale della comunità messianica, del vero Israele di Dio. Il numero non è casuale, perché richia­mava i dodici capostipiti delle dodici tribù d’I­sraele. Ad essi Gesù avrebbe concesso il suo potere e la sua autorità per continuare la mis­sione in tutto il mondo.

*  La sequela di Gesù comportava il distacco dai parenti, l’abbandono delle ricchezze e dei beni materiali, del lavoro, un cambiamento ra­dicale di vita, un’adesione totale alla sua perso­na e alla sua causa. E proprio la comunione di vita il tratto più caratteristico del discepolato istituito da Gesù. Egli non mirava tanto a inse­gnare ai discepoli una dottrina nuova, ma a co­municare un’esperienza di vita, imperniata sul mistero della sua persona, finalizzata alla pro­clamazione e instaurazione del regno di Dio. Per il discepolo di Gesù non è importante impa­rare qualcosa (= mantháno), ma piuttosto se­guire (akolouthéo) il Maestro. I discepoli di Gesù invece devono fare un’esperienza di vita con lui, non tanto per riferirla e insegnarla, ma per testimoniarla, quale vangelo di salvezza. Il discepolo, infatti, dopo aver vissuto tale comunione di vita con Gesù, dovrà prolungarne la missione, predicare il vangelo. Keryssein (= predicare, proclamare) è un termine tecnico in Mc, usato 14 volte, per indicare la funzione discepoli. Gesù era stato inviato dal Padre, i discepoli sono mandati da lui ad «evangelizzare» e a «scacciare i demoni» (3,14-15), secondo uno statuto molto esigente, perché dovevano mostrare con la vita di riporre la propria sicurezza unicamente in Dio.

c) Tre o quattro discepoli tra i Dodiciformano un gruppo più vicino a Gesù. Si tratta dei primi quattro chiamati: Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni (1,16-20.29). Essi sono nominati per primi nell’elenco dei Dodici (3,16-19) e appaiono come un gruppo a parte, i destinatari del discorso escatologico (13,3). - Il gruppo di tre, Pietro, Giacomo e Giovanni, riguarda i testimoni privilegiati della risurrezione della figlia di Giairo, della trasfigurazione e dell’agonia di Gesù al Getsemani. Andrea scompare progressivamente dalla scena.

d) Pietro ha un ruolo prioritario in tutta la tradizione evangelica. Mc non si preoccupa di salvare la reputazione dei Dodici; anzi, spesso ne rileva la inintelligenza, l’ambizione. Pietro è trattato ancora più rudemente. Gesù lo chiama Satana (8,33). Mancano in Mc alcuni episodi che danno prestigio alla persona di Pietro, come il cammino sulle acque, la promessa del primato, il pagamento del tributo al tempio, che sono esclusivi di Mt e formano il cosiddetto “ciclo petrino”. Anche Lc ha dei passi petrini propri (22,8.31-32). Le omissioni di Mc riflettono l’umile predicazione petrina? Alcuni lo affermano. Nonostante la maggiore aderenza alla realtà storica nella descrizione della figura di Pietro, Mc non intende sminuire l’importanza dell’apo­stolo. Anzi, se si tiene conto della struttura del­l’opera, risulta che la professione di fede messianica di Pietro ne costituisce lo spartiacque dottrinale. Da quel momento Gesù propone ai discepoli la sequela sulla via verso la croce; la loro sorte da allora si confonde drammaticamente con quella del Maestro. Anche se permane l’incomprensione sulla missione e sullasorte del Messia, essi saranno coinvolti nel suo destino. ­

Dopo la risurrezione diverranno i testimoni e i continuatori della sua missione di salvezza. Le donne al sepolcro, dopo aver ricevuto il messaggio pasquale, devono trasmettere l’ordine di recarsi in Galilea «ai suoi discepoli e a Pietro (16,7). Solo Mc nomina Pietro alla conclusione della sua opera; un dettaglio molto significativo.

Autore, data, luogo di composizione e destinatari

Il problema dell’autore del secondo vangelo è ancora molto dibattuto. Si tratta d’una persona cheha avuto un’idea geniale, tanto da essere considerato l’inventore d’un nuovo genere letterario, cioè del «genere evangelico», sviluppato dagli altri evangelisti in modo più personale esistematico. Mc, come si diceva sopra, manca di creatività. Egli si è limitato a riunire le raccolte tradizionali, a coordinare il mate­riale eterogeneo delle sue fonti, per illustrare la rivelazione progressiva del mistero di Gesù, a partire dal battesimo di Giovanni sino alla sua gloriosa risurrezione. Il suo lavoro fu accolto dalla chiesa come espressione della testimonianzaapostolica su Cristo. Tuttavia l’identità dell’autore resta alquanto oscura.                  1. L’autoreè unanimemente identificato con Marco a partire da Papia, vescovo di Gerapoli­nella prima metà del II secolo. Questi com­pose un’opera, Esegesi dei detti del Signore, andata ­perduta. Però lo storico Eusebio ne riporta alcunipassi, tra i quali il seguente, riguardante il nostro evangelista: «Marco, divenuto interprete ­(=hermeneutés) di Pietro, scrisse con esattezza, ma non con ordine, tutto quello che poté ricordare delle cose dette o fatte dal Signore. ­Egli infatti non aveva né ascoltato né seguito ilSignore, ma era stato più tardi - come ho detto - al seguito di Pietro. Questi teneva le sue istruzioni secondo le necessità, ma senza l’intenzione di fare un’esposizione ordinata dei det­ti del Signore. Cosicché Marco non ha commes­so alcun errore scrivendo alcune cose, come se le ricordava. Infatti non ha avuto che una preoccupazione, quella di non tralasciare nulla di ciò che aveva sentito e di non dire nulla di falso in queste cose» (Hist. Eccl., III, 39,15).

È una testimonianza preziosa che risale al 110-130, ma molto discussa. Papia dichiara di riferire quanto aveva sentito dal «presbitero» Giovanni di Efeso, che probabilmente va distin­to dall’apostolo omonimo, anche se molto auto­revole perché testimone diretto della predica­zione apostolica. Forse Papia si proponeva di difendere l’autenticità e la validità del secondo vangelo per la sua stretta dipendenza dalla pre­dicazione di Pietro. Mc, dopo la pubblicazione degli altri vangeli, venne probabilmente svalu­tato e messo in disparte, anche perché l’autore non era stato né discepolo né uditore di Gesù. Si spiega così l’intervento apologetico di Papia, il quale ammette il «disordine» di Mc, ma ne sottolinea pure l’esattezza nel riportare la testi­monianza petrina.

Ma a quale Marco si riferisce Papia? Lo si èquasi sempre identificato con quello nominato da Paolo ai Colossesi 4,10; Filemone 24; 2Timoteo 4,11 e soprat­tutto in 1Pietro 5,13, dove l’apostolo associa ai suoi saluti «Marco, mio figlio». Per la maggioranza dei commentatori si tratta di Marco o Giovanni Marco, figlio di Maria (At 12,12), che fu compagno di Paolo e di Barnaba nel loro primo viaggio missionario in Asia (At 12,25; 13,5.13; 15,36-40).

Le testimonianze patristiche posteriori han­no minore rilevanza, perché dipendono sostanzialmente da quella di Papia, anche se apporta­no qualche ulteriore precisazione. Per esempio, Ireneo scrive: «Dopo la dipartita di costoro [= la morte di Pietro e Paolo], Marco discepolo e interprete di Pietro, anch’egli ci ha trasmesso per iscritto quanto Pietro aveva predicato» (Adv.haer. 3,1,1, = Eusebio, Hist. eccl. V,8,3). Origene, Clemente Alessandrino e altri ricalca­no le medesime notizie.

Dall’analisi interna dell’opera si può dedurre la fedeltà dell’evangelista nel riportare le sue fonti, che ri­flettono chiaramente la loro origine in ambiente semitico. La conoscenza delle usanze e delle credenze ebraiche dimostra che si tratta con ogni probabilità di un giudeo-cristiano. Molti esegeti, partendo dal presupposto che Mc fosse stato compagno di Paolo, si sono posti il proble­ma dei rapporti dottrinali tra i due, ma con ri­sultati contrastanti. Non mancano delle conver­genze per l’uso di alcuni termini, come «vange­lo», «parola», «mistero», «proclamare»; inoltre da Mc sembra emergere una «theologia crucis», che costituisce il punto centrale della dottrina soteriologica di Paolo.

Allo stato attuale della ricerca scientifica non sembra provata con certezza l’identificazio­ne di Mc con l’omonimo Marco o Giovanni Marco, anche se probabile. Sappiamo però quanto sia facile la confusione nell’identificazio­ne di diversi santi a causa dell’omonimia. Comunque, la questione dell’autore non ha grande rilevanza, soprattutto per Mc, che aderisce strettamente alle fonti, derivate dalla tradizione ecclesiale più antica.

2. La data del secondo vangelo va collocata tra il 60e il 70 d.C. In base alle testimonianze, di Papia e di Ireneo, che fanno di Mc il trasmettitore della predicazione di Pietro, probabilmente dopo la sua morte (e anche di Paolo), la data più probabile andrebbe ricercata tra il 65 eil 68/69.

3. Il luogo di composizione fu probabilmente Roma, come attesta la tradizione e comprovano i frequenti latinismi. L’origine romana spiega anche l’affermazione e la rapida diffusione di Mc in tutta la chiesa, data l’importanza di quella comunità. È fragile l’ipotesi della composizione di Mc in Egitto, mentre potrebbe essere più attendibile l’ubicazione in Antiochia di Siria per il collegamento con la predicazione di Pietro e l’uso di alcuni aramaismi tipici nella regione.

4. I destinatari sembrano essere i cristiani di Roma o, comunque, di comunità pagano-cristiane. Anche se non è sicura la composizione romana del vangelo, tuttavia emerge la preoccupazione di spiegare le usanze ebraiche, di tradurre i vocaboli aramaici, di non usare il termine Legge (nòmos) per indicare la Torah, che non corrisponde certo a un codice di leggi, secondo la mentalità romana. Tuttavia è chiaro che Marco scrive in una comunità che resta collegata alle origini del cristianesimo in Galilea e a Gerusalemme, ma è vincolata alla missione etnico-cristiana, alla chiesa dei giudei e pagani.

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