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Accoglienza si, ma con rispetto reciproco

carretto migranti.jpg(foto: emigranti) Si scrivono centinaia di articoli, pensieri, note a proposito dei migranti che giungono sulle nostre coste percorrendo migliaia di kilometri per terra e poi per mare; tantissimi, anche noti giornalisti, fanno spesso riferimento al fatto che noi italiani siamo un popolo di migranti e quindi dovremmo capire le motivazioni di chi fugge non solo dalla guerra, ma anche dalla fame. Che in Italia il “dramma” dell’emigrazione sia ben conosciuto lo sappiamo tutti e che molti dei nostri emigrati siano riusciti a farsi strada nei paesi d’accoglienza è anche arcinoto, ma pochi accennano al fatto che gli italiani all’estero non hanno mai preteso di cambiare le abitudini, le tradizioni, la cultura, i modi di vivere di chi li ospitava, anzi si sono talmente “integrati” da entrare a far parte a pieno titolo delle comunità ospitanti, accettandone e facendo proprie la lingua, le leggi, le abitudini, le tradizioni, senza per questo perdere la propria cultura e le proprie credenze religiose. In Italia si sta stravolgendo completamento il principio di ospitalità basato sul rispetto reciproco tra ospitato e ospitante. Non è migranti in attesa.jpgaccettabile che noi dobbiamo adeguarci alle abitudini, ai comportamenti, al credo religioso di chi viene a vivere da noi; è giusto che i nostri ospiti continuino in piena libertà a credere nel “dio tuono” o a non cibarsi di carne di maiale, ma non vediamo per questo perché noi  dovremmo, per un frainteso afflato di fratellanza, smettere di pregare la Madonna o di mangiare le salsicce di maiale perché così facendo potremmo colpire la loro suscettibilità.

Ricordo ancora quando durante una mia permanenza a Teheran per ragioni di lavoro nel 1980, fui invitato da un amico funzionario della nostra ambasciata, alla cerimonia della “prima comunione” dei bambini figli degli impiegati italiani. La chiesetta cattolica era a poche decine di metri dalla sede diplomatica italiana e alla fine della funzione religiosa quando uscimmo per raggiungerla, noi tutti, adulti e soprattutto bambini, fummo accolti da un centinaio di facinorosi che ci lanciarono addosso uova e frutta marcia, senza che la polizia intervenisse minimamente. Di corsa raggiungemmo la sede dell’ambasciata e tentammo di rasserenare i bambini che erano stati il bersaglio principale di quella brutale manifestazione d’intolleranza.

Potrei citare molti “fatterelli” analoghi e altri molto più pesanti ai quali ho assistito e talvolta partecipato, mio malgrado, in Nigeria e Congo, ma sono sicuro che molti “bacchettoni” sarebbero restii a credere. Questo non significa che noi si debba essere intolleranti allo stesso modo, ma dobbiamo “pretendere” che il nostro modo di vivere venga difeso, che le nostre regole, le nostre leggi vengano rispettate e fatte proprie da chi “pretende” di essere accolto, nutrito ed ugualmente rispettato.

In coda proponiamo dal web la lettura del racconto di un episodio increscioso accaduto qualche giorno fa, che non ha niente a che vedere con gli immigrati, ma che da l’esatta misura di quanto sia stravolto ormai il nostro senso di appartenenza a quella che è la nostra matrice culturale millenaria, il Cristianesimo. Nel bene e nel male, che si creda o no, volenti o nolenti il nostro modo di essere è basato sui principi etici e morali che la Parola di Cristo ci ha insegnato.

Antonio Michele Cavallaro

Il 13 ottobre la professoressa Clara Ferranti, ricercatrice di Glottologia e Linguistica al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata, fa lezione a un centinaio di studenti di Lingue e Lettere: alle 17:30 in punto si interrompe e li invita a recitare l’Ave Maria, una «preghiera per la pace» che quel giorno a quell’ora, nel centenario dell’apparizione della Madonna di Fatima, si tiene in varie parti d’Italia.

Alcuni studenti pregano, altri rimangono in silenzio: di lì a poco l’episodio finisce sui social. E un comunicato di fuoco dell’Officina universitaria, un’associazione studentesca, denuncia «la limitazione della libertà personale» subita dai ragazzi.

La docente si difende, sostiene di non aver coartato la libertà di nessuno e di aver interrotto la lezione solo per pochi minuti, ma sul web piovono critiche pesanti, e pochissimi messaggi di sostegno. Interpellato sul punto il rettore Francesco Adornato è esplicito: «Si tratta di un atteggiamento assolutamente improprio e censurabile, mi scuso a nome dell’ateneo».

E sulla vicenda è intervenuto oggi il vescovo di Macerata, monsignor Nazareno Marconi, che in una nota dal tono ironico pubblicato sul sito dell'emittente diocesana chiede scusa, come credente, «di aver destabilizzato la serenità di un'Università».

«La storia dei 25 secondi di interruzione di una lezione, per dire un’Ave Maria per la pace, con la reazione che ha scatenato, ci interroga profondamente come credenti. Gli stessi 25 secondi usati per dire una battuta, cosa che molti docenti fanno spesso, non avrebbero creato problemi».

Il problema, prosegue il vescovo, «è la nostra poca fede». Perché chi prega molto, ad esempio chi recita il Rosario potrebbe pensare che le Ave Maria «valgano poco, che di fatto siano innocue. Che non creino problemi». E invece no: l'agitazione suscitata all'Università da una sola Ave Maria, le proteste hanno ricordato «che la preghiera è una forza, una potenza che può mettere paura a qualcuno. Grazie a chi crede più di noi credenti che quelle poche parole smuovano i monti e i cuori tanto da sconvolgere la loro vita. Grazie a chi ci ricorda che dire Ave Maria è salutare una donna morta 2000 anni fa credendo che è viva, in grado di pregare per noi e di operare per rendere la nostra vita più buona e vicina a Dio, tanto da aiutarci ad affrontare serenamente la morte»

E infine la efficace chiusa di monsignor Marconi: «Grazie fratelli non credenti e anticlericali perché ci avete ricordato quali tesori possediamo senza apprezzarne adeguatamente il valore e l'importanza".

fonte: dal Web

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