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Il trionfo dell’erotismo nella scultura napoletana tra ‘800 e ‘900

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Francesco Jerace - Victa - firmata sul retro - busto in marmo con colonna - 88 - 140 - Napoli collezione della Ragione.jpgCominciamo questa entusiasmante carrellata tra poppe al vento ed invitanti sederi ben esposti illustrando la Victa (fig.1) di Francesco Jerace, il suo capolavoro, che secondo le intenzioni dell’artista rappresentava, con il suo sguardo fiero ed orgoglioso, la Polonia, “vinta”, ma non domata.

Si tratta di un’opera a me particolarmente cara, perché cara mi costò quando nel 1994 me la aggiudicai nella memorabile asta dei beni del mitico Achille Lauro, nella cui villa di via Crispi troneggiava  sul grande scalone che portava ai piani superiori, mentre da oltre venti anni attira i maliziosi sguardi degli ospiti nel salone della mia villa di Posillipo.

Ad essa dedicai un breve articolo: Il caldo tepore di un seno di marmo, pubblicato su numerose riviste, che ha costituito la prefazione del mio libro: Il seno nell’arte dall’antichità ai nostri giorni (consultabile in rete digitandone il titolo) e che oggi vi ripropongo.

“Godere della bellezza di un seno, anche se raffigurato dal pennello di un pittore o dallo scalpello di uno scultore è l’esercizio più nobile che distingue l’uomo dalla bestia, la civiltà dalla barbarie, è la sintesi di una condizione umana immutabile, sospesa tra l’esaltazione dell’amore ed il terrore della solitudine, tra la gioia di vivere e la paura di morire e ci aiuta ad affrontare più serenamente l’angoscia dell’esistenza, a coglierne la bellezza e la fragilità.

 Che cos’è veramente l’arte se non una guerra, una lotta contro la materia, un corpo a corpo con la forma e con l’idea. Perdersi nell’armonia delle forme e dei colori permette di addentrarsi in un mondo senza frontiere e ci dà la possibilità di essere felici nell’eternità della bellezza e dell’arte.

Quale viaggio più avventuroso della serena contemplazione dei severi seni della Victa, un busto marmoreo, capolavoro dello scultore Francesco Jerace, già nella collezione del comandante Achille Lauro. 
La statua proviene da un blocco di marmo di Carrara bianchissimo e luccicante ed irradia una luce abbagliante, che sembra stregare ed avvincere l’osservatore, il quale, rapito dalla bellezza del volto corrucciato e dalla vista degli splendidi seni non può guardarla troppo a lungo senza desiderarla. I seni della Victa sono fatti di un marmo carnoso, ricco, trasparente; essi sono eterni, sostenuti dalla rigidità della materia impassibile. Non si deformano, né avvizziscono, archetipo immobile della femminile bellezza. Rappresentano il porto sicuro verso cui ogni uomo anela di fermarsi e riposare per sempre, preziosi come una boccetta di rare essenze, prorompenti, ma nello stesso tempo fragili, come se costituiti da sottile cristallo, che a rompersi si disperdono come polvere di talco. 

Alla vista di questi seni immortali è inevitabile per l’osservatore cadere vittima della sindrome di Sthendal: una vertigine intensa ed interminabile che illuminerà questo nostro lungo percorso attraverso l’arte ed attraverso il seno, un pianeta che merita di essere esplorato e sviscerato in lungo e largo per un sottile piacere dello spirito”. Prima di passare oltre vi confesso che ho utilizzato più volte queste frasi laudative per elogiare seni di signore e signorine, illuse che fossero stati composti alla vista dei loro e la ricompensa è stata sempre palpabile e commisurata ai complimenti.

Passiamo ora ad un seno plebeo, ma non meno prorompente, quello di una schiava (fig.2) immortalata da Giacomo Ginotti nel 1877 e conservata nelle austere sale del museo di Capodimonte. La schiava è colta nel momento in cui rompe le catene che le stringono i polsi, un gesto supremo che le scuote il corpo e ne segna il viso da cui traspare la traccia dell’antica servitù e l’aureola della agognata libertà. L’artista si serve della sensualità della giovane africana per farsi latore di una severa denuncia sociale. I seni della fanciulla (fig.3) sono fatti di un marmo, carnoso, ricco, trasparente che li fa tersi e puri. Come è difficile non contravvenire al severo divieto nei musei di non poter toccare le statue e provare con mano la rigidità della materia impassibile, archetipo di forme immortali, che non si deformano, non avvizziscono e sfidano lo scorrere del tempo, permettendo di godere con la vista e correre con la fantasia. A pochi è concesso il privilegio di vivere in eterno nella memoria degli altri, per i seni di questa anonima giovinetta  è invece normale sfidare i secoli, dando gioia e diletto a più generazioni, fino a quando tra gli uomini sarà vivo il gusto per il bello.


fig. 2 - Giacomo Ginotti - Emancipazione dalla schiavitù - marmo  - 155 - 54 - 70 - firmata e datata 1877 - Napoli museo di Capodimonte

Giacomo Ginotti - Emancipazione dalla schiavitù - marmo  - 155 - 54 - 70 - firmata e datata 1877 - Napoli museo di Capodimonte.JPG

fig. 3 - Giacomo Ginotti - Emancipazione dalla schiavitù - marmo  - 155 - 54 - 70 - firmata e datata 1877 -(particolare del seno) Napoli museo di Capodimonte

Giacomo Ginotti - Emancipazione dalla schiavitù - marmo  - 155 - 54 - 70 - firmata e datata 1877 -(particolare del seno) Napoli museo di Capodimonte.JPG


Una faunetta che allatta un agnellino (fig.4), tra le più riuscite opere di Vincenzo Jerace, fratello del più famoso Francesco, rappresenta una originale iconografia, basata su visioni simbiotiche fra uomo e natura e sulla solidarietà che lega tutti i viventi. Il piccolo bronzo, pare improntato ad una certa solennità rinascimentale, che rimembra i preziosi lavori di oreficeria del Cellini, grazie alla preziosa patina dorata che l’artista imprime a questa delicata composizione.  L’abitudine di allattare per anni trova la sua prima ragione nella povertà più assoluta, anche se tale pratica ha un benefico effetto nel ritardare la nascita di altri figli. Il latte al seno non costa niente ed anche se diventa sempre più scarso ed inadeguato può lenire i morsi della fame ad un bambino di 2-3 anni e nella stessa misura può salvare un piccolo agnellino che ha smarrito la mamma, come quello magistralmente descritto nell’opera in esame. Unico serio inconveniente di questa sofferta costumanza sono profonde e dolentissime fissurazioni nei capezzoli, le temibili ragadi, porta di ingresso delle più varie infezioni, ma il seno della nostra mamma ha resistito spavalda all’attacco dei denti del figliolo ed a testa alta regge la sfida solitaria in favore della solidarietà. Il volto è gioioso, il seno è impettito ed esuberante ed il capezzolo, spavaldo, sembra voler combattere la sua disperata battaglia contro la fame.

Achille d’Orsi intitola la sua opera Pathos (fig.5), ma sarebbe stato più esaustivo affiancare la parola Estasi, perché questa sensazione promana prepotente dalle leggiadre forme della fanciulla impressa nel bronzo in una posa tra eccitante e sensuale. L’opera fa parte di quella serie di splendide figure di donne, spesso colte in atteggiamenti drammatici e convulsi, ma che lo scultore ritrae nel pieno rinvigorimento tutto liberty delle forme e delle espressioni e nel compiacimento edonistico delle nudità muliebri. La carica erotica che emana dalla scultura è palpabile, ma l’artista non cede mai ad una sensualità volgare o eccessiva e vi riesce perché fa leva sulla grazia di due seni non aggressivi, due boccioli in fiore, fragranti di un profumo seducente in grado di attirare senza eccitare e di conquistare anche i più indecisi. Seni che mal sopportano di essere imbrigliati in leziosi corsetti, dei quali rifiutano il morso come puledri selvaggi, ansiosi di trottare senza sosta e senza meta, capaci di procurare morbosi desideri di futili piaceri.

fig. 4 - Vincenzo Jerace - Faunetta che allatta un agnellino  -bronzo - firmata e datata 1938 -  Napoli collezione privata

fig. 4 - Vincenzo Jerace - Faunetta che allatta un agnellino  -bronzo - firmata e datata 1938 -  Napoli collezione privata.JPG

fig. 5 - Achille d'Orsi - Pathos - bronzo - 66- 34 - 32 - firmato - Roma collezione Chines

fig. 5 - Achille d'Orsi - Pathos - bronzo - 66- 34 - 32 - firmato - Roma collezione Chines.JPG
A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento l’arte di Costantino Barbella muta in direzione del Simbolismo ed il corpo femminile diviene il centro di una nuova osservazione secondo l’idea di una donna sensuale, orbitante nel decadentismo dannunziano. La ricerca del bello formale doveva avvenire sempre e soltanto attraverso la ripresa dal vero, che senza incertezza alcuna riusciva a ritrarre in scala, come nel caso di questa sensuale terracotta, giustamente denominata Ebbrezza (fig.6), nella quale uno splendido nudo femminile è languidamente disteso su un letto di rose ed invita a pensieri non proprio casti l’osservatore.

La stessa modella, ridente ancor d’infanzia e già schiusa nel fiore della prima adolescenza, dopo poco si alza e dà vita ad un’altra delle opere più famose del Barbella: Risveglio (fig.7), una statuina di piccole dimensioni, nella quale è sottolineata la sinuosità del corpo della donna, colta mentre si aggiusta i capelli, un gesto semplice di vita quotidiana. I capelli ondulati cingono la testa e si annodano sulla nuca; il collo è di una purezza perfetta, l’orecchio è piccolo, le mani e le braccia sono eleganti e forti, le reni sono falcate, il ventre sporge lievemente ed è quasi palpitante in una dolce elasticità di carne, mentre il seno è fiorente e diventa il centro dinamico della composizione.

fig. 6 - Costantino Barbella - Ebbrezza - terracotta - 30 - 63 - firmata - 1912 - Italia collezione Cauli

fig. 6 - Costantino Barbella - Ebbrezza - terracotta - 30 - 63 - firmata - 1912 - Italia collezione Cauli.JPG

fig. 7 - Costantino Barbella - Risveglio - terracotta - firmata - 25 - 14 - 14 - Chieti museo Barbella

fig. 7 - Costantino Barbella - Risveglio - terracotta - firmata - 25 - 14 - 14 - Chieti museo Barbella.JPG
Grande successo ebbe la Venere che avvolge la chioma (fig.8) di Giovan Battista Amendola quando fu esposta nel 1903 alla V Internazionale di Venezia. Una Venere antica per purezza di linee, eleganza di forme, verità di nudo; donna più che dea, che abbaglia con lo splendore della superba anatomia, ma anche con quell’aurea di vitalità che le toglie l’aspetto glaciale dell’immagine, raggiungendo un vertice della rappresentazione artistica.  La scultura raffigura la dea mentre una leggera brezza scompiglia i suoi capelli ed accarezza il suo corpo vellutato, gloriosamente nudo. Il suo prezioso seno, eretto e valoroso, sembra pervaso da una generosità spontanea che invita alla serena contemplazione e fuga i cattivi pensieri. La misura geometrica di questi seni è in armonia con l’altezza e la forma del resto del corpo. Sono magicamente a posto nella loro perfezione. Rivelano inoppugnabilmente la materializzazione della grazia e della finezza. Lo scorrere dei secoli e l’evoluzione non potranno superare la semplice impostazione e la felice collocazione nello spazio e nel tempo di questi seni, leggiadri ed agili, scattanti e pronti al combattimento.

Sono l’indefettibile testimonianza dell’infinita misericordia e lungimiranza del Creatore.

fig. 8 - Giovan Battista Amendola - Venere che si avvolge la chioma  - 1886 circa - bronzo - 85 - 26 - 26 - Roma collezione Chines

fig. 8 - Giovan Battista Amendola - Venere che si avvolge la chioma  - 1886 circa - bronzo - 85 - 26 - 26 - Roma collezione Chines.JPG
Tito Angelini, noto scultore neo classico ed a lungo docente nell’Accademia di Belle Arti di Napoli, ci raffigura la nostra progenitrice Eva (fig.9) come figura isolata, prima di sedurre Adamo, in compagnia del serpente e della mela. Si tratta del primo nudo in assoluto a cui ne seguiranno infiniti altri. Eva è effigiata come una giovane e bella donna nuda, una Venere ante litteram, dai lunghi capelli, di una allusiva sensualità, a simboleggiare il pericoloso fascino femminile, con una resa morbida del modellato ed un’attenta definizione dei particolari anatomici. Da quel nudo sono cominciati per l’umanità gioie e dolori in egual misura.

fig. 9 - Tito Angelini - Eva - marmo bianco - ante 1902 - 50 - 28 - 24 - Napoli Galleria dell'Accademia di Belle Arti


Esaminiamo ora due sculture in cui le modelle assumono posizioni acrobatiche per mettere in mostra con sprezzo del pericolo e consumata perizia le proprie grazie all’osservatore. La prima (fig.10), un bronzo di Vincenzo Jerace ci mostra una vera sfida alle leggi della gravitazione con la fanciulla in preda a spasmodiche torsioni, nella seconda (fig.11) di Antonio De Val, la fanciulla si esibisce in una sorta di danza del ventre a cui partecipa attivamente anche il seno, mentre il pomo assume un significato simbolico come invito al peccato ed alla trasgressione. Sono due lavori che non sfigurerebbero tra le pagine del Kamasutra, capolavoro della letteratura erotica di tutti i tempi, famoso codice indiano delle posizioni dell’amore scritto in sanscrito tra il IV ed il VII secolo, arricchito di immagini esplicative da artisti di ogni latitudine. Nel Kamasutra si dedica, come nei due bronzi in esame, particolare attenzione ai seni che portano i segni dei graffi di un amante in estasi. Un grosso graffio vicino al capezzolo veniva definito il salto della lepre e le donne erano orgogliose di mostrare alle altre donne questi trofei d’amore come prova inoppugnabile del successo con i propri amanti.
Vogliamo concludere questa nostra carrellata tra arte ed erotismo dedicando la nostra attenzione, dopo la glorificazione di tanti seni, al non meno invitante lato B. 

fig. 10 - Vincenzo Jerace - Acrobazia -bronzo - firmata e datata 1938 -  Napoli collezione privata

fig. 10 - Vincenzo Jerace - Acrobazia -bronzo - firmata e datata 1938 -  Napoli collezione privata.JPG 

fig. 11 - Antonio De Val - La danza del pomo - bronzo ante 1929 - Napoli collezione Tullia Gargiulo


Gli psicanalisti, nelle loro dotte elucubrazioni hanno diviso gli uomini in due distinte categorie: ciuccioni, che inseguono per tutta la vita il seno delle donne, per rammentarsi di quello della mamma e feticisti, adoratori più o meno espliciti del sedere quale fonte di sfrenata fantasia alla ricerca di piaceri raffinati.

La scultura in primis, ma anche la pittura, il cinema, i rotocalchi, i concorsi di bellezza hanno nei secoli glorificato questo prezioso attributo femminile e, mentre Tinto Brass, con ambizioni filosofiche, ha scritto un piccolo trattato sull’argomento, noi vogliamo proporre alcune immagini per la gioia degli occhi e per gli spericolati ed innocui giochi della fantasia.

L’arte ha sempre dedicato grande attenzione alla bellezza femminile soprattutto la statuaria che, con la rigida fissità della materia, ben rende la ricercata consistenza coriacea dell’attributo, come nella Danaide (fig.12) eseguita da Luigi de Luca e conservata in quella preziosa quanto misconosciuta raccolta del Circolo artistico Politecnico, sito in Napoli in piazza Triste e Trento. L’artista è in grado con rara maestria di fermare l’attimo e lo spirito fluttuante nella materia, fissando nella cruda anatomia l’anima assetata di vita che freme nel marmo. In uno spazio ristretto sa collocare un’infinità di sottigliezze ed emozioni, donando un magico dinamismo alla fissità della materia.

fig. 12 - Luigi de Luca - Danaide - marmo - 47 - 77 - 38 - firmata e datata 1927 - Napoli circolo artistico politecnico


Di Tommaso Solari è una splendida statua (figg.13-14), che mostriamo fronte retro, già appartenente alla raccolta di Casa Reale ed oggi conservata nella prestigiosa sede del museo di Capodimonte. Denominata Baccante, la giovane donna ha il capo cinto da una corona di pampini e solleva una coppa di vino. L’atteggiamento rilassato della figura, appoggiata ad un tronco d’albero, ricoperto quasi interamente dalla pelle di un felino, indurrebbe più verosimilmente ad identificare l’immagine con quella di Onfale. Ella si predispone all’occhio esterrefatto dell’osservatore, creando intorno a sé una nicchia dove un compagno di avventura è invitato come amante, ad accarezzare le sue forme generose di divinità dell’opulenza e nello stesso tempo di brava ragazza. Niente di più moderno di questo epicureismo alleggerito da ogni totem e tabù vittoriano.

fig. 13 - Tommaso Solari - Baccante - marmo - 172 - 55 - 62 - intorno 1850 - 60 - Napoli museo di Capodimonte

fig. 13 - Tommaso Solari - Baccante - marmo - 172 - 55 - 62 - intorno 1850 - 60 - Napoli museo di Capodimonte.JPG

fig. 14 - Tommaso Solari - Baccante - marmo - 172 - 55 - 62 - Napoli museo di Capodimonte

fig. 14 - Tommaso Solari - Baccante - marmo - 172 - 55 - 62 - Napoli museo di Capodimonte.JPG
Il nostro discorso potrebbe dirsi concluso, ma trovandoci a Napoli, non possiamo non ricordare un capolavoro assoluto, anche se eseguito fuori dei termini temporali prefissati e da un artista non indigeno. Nel luogo più esoterico di Napoli, la Cappella San Severo, regno dei mirabolanti esperimenti del principe Raimondo di Sangro, affianco al famosissimo Cristo velato, trova posto una statua allegorica: la Pudicizia (fig.15), realizzata nel 1752 dallo scultore veneto Antonio Corradini. Il monumento funebre è dedicato a Cecilia Gaetani d’Aragona, madre del principe, morta quando il figlio era in tenerissima età. Il Corradini, già famoso per aver realizzato figure velate, pare che a Napoli abbia raggiunto la perfezione grazie all’aiuto del principe, esperto di alchimia e di pratiche di trasmutazione della materia. La figura della giovane donna, completamente nuda e di rara bellezza, è ricoperta da un velo di marmo straordinariamente aderente alla pelle, leggerissimo, naturale, impalpabile che lascia vedere chiaramente il delicato contorno dei seni, sodi, sormontati da un altero capezzolo appuntito. L’artista raggiunge una perfezione assoluta nel modellare il tenue velo marmoreo sul delizioso corpo della donna con estrema eleganza e sobrietà, come se un vapore esalato da un bruciaprofumo contribuisse a rendere umido e tenacemente aderente alla cute lo strato impalpabile, interrotto orizzontalmente da un serto di rose. Lo sguardo smarrito nel tempo e la lapide spezzata sono i simboli di un’esistenza troppo presto troncata e palesano il tangibile ed ancora cocente desiderio del figlio Raimondo, che volle così tramandare le virtù, ma anche le splendide fattezze della giovane madre, il cui seno superbo aveva trasmesso gioia di vivere ed a lungo avrebbe potuto tenere accesa la fiamma del desiderio.

Il bassorilievo posto sul basamento descrive l’episodio evangelico del Noli tangere a conferma di una dolorosa quanto definitiva impossibilità di ogni contatto umano ed a ricordarci la caducità del corpo e la vanità delle forme, anche le più sublimi quali i seni della giovane donna, esaltati da un velo magico di sovrumana bravura.

Achille della Ragione

fig. 15 - Antonio Corradini - Pudicizia - 1752 - Napoli Cappella San Severo

fig. 15 - Antonio Corradini - Pudicizia - 1752 - Napoli Cappella San Severo.jpg