Una notte di un giorno imprecisato della fine degli anni ‘60 mi trovai mio malgrado in una situazione poco simpatica, per usare un eufemismo. Con la band di cui facevo parte insieme a mio fratello Leone, suonavo in un night club in prossimità del confine svizzero-tedesco, la serata procedeva come al solito in modo tranquillo, noi eravamo posizionati su di un piccolo palchetto di fronte alla pista da ballo, mentre sulla nostra sinistra c'era il bar separato dal resto della sala da alcune paretine mobili ma robuste. Al bar era possibile accedere anche dall'esterno senza necessariamente entrare nella sala. La serata si svolgeva come al solito senza particolari novità, suonavamo intercalando brevi incursioni in sala dove avevamo quasi sempre amiche ed amici nostri aficionados e permettere ai camerieri di servire agevolmente le coppie ai tavoli.
A un certo momento entrarono nel bar 4 balordi in giubbotto di pelle nera e jeans, tipo blouson noir francesi o greaser americani, già mezzi ubriachi che presero posto al bancone sedendo sugli alti sgabelli. Cominciarono a ordinare da bere e mentre continuavano a sbronzarsi iniziarono ad indirizzare nei nostri confronti frasi offensive riguardanti il nostro essere italiani. Era prassi che noi si facesse ogni tanto una piccola pausa per bere qualcosina al riparo del pubblico, così poco dopo il loro arrivo ci avviammo verso il bar per raggiungere il quale dovevamo necessariamente passare davanti al bancone, in quel momento occupato dai 4 personaggi già descritti. Pur seguiti dai loro sguardi strafottenti e dalle loro malevoli battutine passammo alle loro spalle per raggiungere un tavolinetto in fondo al piccolo locale. Proprio mentre stavo per transitare oltre l’ultimo di quei 4 coglioni, costui si girò di colpo sullo sgabello e alitandomi in faccia il puzzo di alkool sibilò fra i denti la frase che mi fece incazzare di brutto: “huere Sau tschingg...”*, termine parecchio volgare col quale noi italiani venivamo talvolta connotati nella Svizzera interna.
Ebbi un riflesso incondizionato e con la punta del piede sinistro agganciai lo sgabello su cui stava appollaiato il cialtroncello e tirandolo violentemente verso di me lo feci capitombolare sul pavimento. Gli altri tre dopo un attimo di stupore mi si slanciarono contro per rendermi pan per focaccia ma, contemporaneamente mio fratello, Giorgio, Nino ed io piombammo loro addosso ed in pochi secondi i quattro erano stesi a terra con gli occhi gonfi e labbra tumefatte. Fummo talmente rapidi che il breve trambusto non suscitò allarme, solo i due baristi, una ragazza italiana ed un giovane turco, si accorsero di quel che era successo. Rientrammo in sala e riprendemmo a suonare come se niente fosse.
Intanto il proprietario allertato dai due camerieri aveva chiamato la polizia che giunta prontamente portò via quella “spazzatura umana”. Più tardi, tornarono due poliziotti che attesero la fine della serata e poi ci interrogarono sull’accaduto. Ad onor del vero, avevamo concordato con i due baristi una versione addomesticata dei fatti, così dicemmo che i quattro ubriachi si erano pestati fra di loro mentre noi passavamo dal bar e che uno mi era caduto addosso e quindi casualmente eravamo stati coinvolti nel pestaggio ma solo da spettatori.
Ricordo che il più anziano dei due mi chiese se suonavo la chitarra, risposi affermativamente e con un sorrisetto sardonico che gli increspava le labbra mi disse: “…dann seien Sie beim nächsten Mal vorsichtig, um Ihre Hände zu schützen. Wenn Sie sich einen Finger brechen, können Sie nicht mehr spielen“. (Stia attento la prossima volta allora, a tenere protette le mani, se si rompe un dito non potrebbe poter suonare più), e facendomi l’occhiolino mi sussurrò: “Danke schoen” (molte grazie). Aveva capito tutto, ma gli stava bene così perché quei 4 balordi gli avevano sicuramente dato problemi già da tempo.
Una mini-avventura finita tutto sommato bene rispetto ad altri episodi del genere negli anni ’60 conclusi in modo molto meno “tranquillo” nella super-organizzata e ospitale Svizzera.
Antonio Michele Cavallaro
*Tradotto letteralmente : “lurido maiale cinque”. Col termine “cinque” si voleva significare “italiano”. I primi connazionali giunti in Svizzera alla fine degli anni ’40 solevano riunirsi dopo il lavoro, prevalentemente presso le stazioni ferroviarie (non essendoci ancora luoghi di ritrovo per italiani) dove spesso giocavano a “morra”. Durante le fasi del gioco capitava che ogni tanto uno dei giocatori chiamasse il “cinque” che in dialetto meridionale italiano suonava alle orecchie svizzere appunto “tschingg”. Praticamente un neologismo del dialetto svizzero col quale gli autoctoni indicavano spregiativamente solo gli italiani. Beninteso non é che venisse pronunciata spesso il termine, magari molto più veniva pensato. Durante i 20 anni trascorsi da quelle parti mi è capitato solo tre volte di essere stato interpellato con questa parolina, una di quelle volte fu nell'episodio di cui sopra.
A corollario aggiungo un brano di un testo estrapolato dal sito svizzero www.terra-cognita.ch
"È un mercoledì pomeriggio del giugno 1978, l’estate dei Mondiali in Argentina. Attraverso il piazzale della scuola di Staufen. L’Italia si sta giocando l’ingresso in finale contro l’Olanda, è finito il primotempo e domando a qualcuno (a chi, non ricordo) l’esito della partita. «L’Italia vince 1-0,» mi dicono, «autorete di Brandts». Esulto. Possiamo vincere la Coppa del mondo. Un tipo con la barba dice al suo amico: «Guarda come festeggiano già questi Sau-Tschinggen!»
«Tschingg!»
Così vengono insultati gli italiani. Tschingg è sinonimo di persona chiassosa, pigra e stupida. Viene dal gioco della morra, che i nostri emigranti giocavano nei bar e nelle mense delle fabbriche, e siccome era il cinque il numero che più spesso ve-
niva evocato, il suono di quel «cinque venne associato a tschingg»: un’offesa, che nelle versioni più cattive si trasformava in Sau-Tschingg, porco-italiano".